venerdì 2 aprile 2021

Interview with Francesco Ardini

 

Francesco Ardini, classe 1986, è artista italiano il cui lavoro è caratterizzato dall'uso della ceramica. La sua ricerca mette in discussione l'estetica della materia unita ad una sperimentazione digitale che diventa parte dei suoi progetti creando una dimensione altra dell'opera. Di seguito l'intervista con l'artista. 

Chi è Francesco Ardini e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Mi definisco una figura in cui l’azione istintuale è mediata attraverso l’immaginazione. Agendo sull’ immaginazione partecipo alla natura “dentro di me”. Quando mi dedico all’arte cerco di vivere la mia esistenza come un metafora, proiettando in immagini plastiche tutto quello che mi circonda. E’ un processo lungo che richiede tempo e che ho intimamente accettato di recente. La lentezza a cui il Covid ci ha costretto, mi ha aiutato ad abbracciare questo processo interiore di consapevolezza di natura ed istinto. Non sono un ceramista, ma ormai da oltre dieci anni sono appassionato di ceramica, che è il medium che prediligo nella mie opere. Non ho avuto maestri in questo percorso, ma ho osservato molti artigiani lavorare e ho capito quando permalosa e complessa sia la natura alchemica di questo materiale. Il mio percorso da autodidatta nasce da una profonda curiosità nel dare una personale spiegazione della natura. Mi definisco Artista per un autentico trasporto nell’ esplorare fascinose profondità dell’inconscio. La mia formazione di architetto mi ha da sempre reso immediato lo studio di installazioni ovvero quelle che io nelle mie bozze amo chiamare “stanze”, spesso abitate da chi osserva la mostra stessa. Figure che si muovono tra un tavolo, una finestra, una ceramica…

La tua ricerca è caratterizzata dall'utilizzo della materia, in particolar modo della ceramica, materiale da cui prendono forma i tuoi lavori. Come ti avvicini a questa tecnica?
L’utilizzo della ceramica nasce per caso. In un mercatino a Venezia mi avvicinai ad un banchetto di pezzi in ceramica. Me ne innamorai. Chiesi umilmente dove potessi acquistare il materiale per iniziare e mi indicarono Nove, paesino vicino a Bassano. In quel piccolo paese conobbi una realtà magnifica e complessa puramente italiana di polverose botteghe, testarde maestranze e mucchi di terra. Nove ora è diventato il mio luogo di volontario esilio. Qui cerco il distacco dalla quotidianità per trovare il mio tempo, la mia dimensione, il mio linguaggio. Cerco sempre di avvicinarmi alla tradizione perché reputo che non ci sia futuro senza aver compreso il passato, ma allo stesso tempo non voglio emulare le antiche tecniche ma sempre mi ostino a nuove espressioni. Nel 2012 già iniziavo a sperimentare con la realtà aumentata l’espressione della pittura su ceramica in una dimensione altra, quasi sconosciuta. Ho poi lavorato la porcellana come una pelle stesa e sottilissima: mia raffigurazione della memoria. Recentemente ho replicato la polvere come testimonianza del tempo che si distende sulle cose. Un mio segno nella polvere diventa una testimonianza nel presente sul passato.

Convivio coniuga tradizione e innovazione attraverso l'utilizzo della realtà aumentata. Come nasce questo lavoro?
Il tavolo per me è sempre stato uno dei simbolici iconici del mio lavoro. E’ il luogo della tradizione, della famiglia, dei rapporti. Qui la ceramica trova la sua naturale sistemazione. E’ epicentro di tutto e ne subiamo l’influenza per tutta la vita. L’ho affrontato in modo diverso in diversi periodi della mia carriera artistica. Convivio (2013) aveva una particolare connotazione perché avevo cercato di portare la decorazione e la scultura in un territorio inesplorato, ricordiamo che allora instagram doveva ancora entrare nelle nostre vite, come pure tutte le altre piattaforme di realtà virtuale. In questa opera la ceramica è trattata come un organismo che continuava a svilupparsi in una sorta di infinita clonazione e si appropria anche della dimensione virtuale (visibile con una app studiata appositamente, app che si attiva leggendo le decorazioni sulla superficie). L’abbinamento cromatico del blu e del bianco diventava qualcosa di elettrico con frequenze al di là della natura reale. Molti social network e applicazioni usano questo contrasto cromatico per il loro linguaggio. Facebook da sempre in primis. Questa tecnologia ha messo in crisi luoghi della socialità del passato come appunto il tavolo. L’opera non vuole dare una soluzione al tempo che stiamo vivendo, ma è solo testimone di un precario equilibrio tra la realtà virtuale e quella reale.

Lethe e L'isola dei Beati sono due lavori che uniscono scultura e pittura, due dimensionalità che dialogano fra loro. Come nascono questi progetti?
Lethe e l’Isola dei Beati nascono da una profonda astrazione della realtà, partono da piccole decorazioni su ceramiche storiche di Nove e Bassano e portano a scorci su paesaggi sconosciuti. La mia intenzione era di interpretare quelle che una volta erano le classiche vedute su ceramica. Finestre su una natura con un clima apparentemente perfetto.  Ironicamente la personale Lethe presso Schiavo Zoppelli Gallery nasce prima del primo lockdown e l’Isola dei Beati durante il primo periodo di restrizione. Sono entrambe fughe dalla realtà. Quanti di noi hanno utilizzato piccoli e grandi schermi per sfuggire alle mura di casa? Quanti hanno immaginato paesaggi diversi e fughe in nature inesplorate? L’isola dei Beati era stata selezionata per l’importante concorso del Premio Faenza 61°, che proprio a causa del Covid si trasformerà in una finestra virtuale e non potrà avere una esposizione fisica. La tecnologia con cui è stata sviluppata è una novità assoluta nel settore perché si tratta di un intervento fotoceramico in policromia ad ink jet su lastra di gres porcellanato che poi va in cottura. E’ un paesaggio che nasce in una natura immaginifica e misteriosa, il luogo delle anime, il più vicino a quello che Dante definiva come Campi Elisi. Un’ anima è a terra, sotto la parte appesa dell’opera e vuole riportarci ad una natura che rimane misteriosa e ancora incompresa.

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