sabato 4 giugno 2016

Interview with Giovanni Giaretta

Giovanni Giaretta, classe 1983, è nato a padova ma ora vive e lavora in Olanda. L'artista lavora principalmente con il video come mezzo espressivo a cui affinca lavori grafici su differenti supporti. Ho scoperto con piacere i suoi lavori e qui vi proporngo una breve intervista.

Chi è Giovanni Giaretta e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?

Direi che è una persona dall'umore altalenante e che lavora spesso di notte e adora fare ricerche che nel migliore dei casi diventano lavori. Quelle che invece si rivelano sentieri interrotti, diventano storie da raccontare o fotocopie sparse per casa. Porrei l'accento sulle persone incontrate più che sul percorso fatto. C'è stato un momento in cui lavoravo la mattina in un ufficio e il pomeriggio usavo la mia stanza come studio e mostravo quello che facevo ad alcuni amici. Qualcuno mi ha poi convinto, o forzato, ad essere meno riservato ed iniziare ad esporre quello che facevo e a così rompere questa sorta di "civetteria" di esporre in camera mia per pochi intimi.

I tuoi lavori sono un processo sperimentale caratterizzati da spostamento e visione che si traducono in immagini e video; mi puoi parlare di questo processo? qual'è lo "scopo" della tua ricerca e cosa vuoi trasmettere con essa?
Nella mia ricerca cerco di non partire dai fenomeni più evidenti di un dato oggetto di studio e mi concentro sugli elementi più infimi e secondari. Procedo per supposizioni, per annotazioni che possono anche perdersi e rimanere nascoste per mesi nella coda dell’occhio. Penso spesso a Maya Deren, che nel 1947, ricevette il finanziamento Guggenheim Fellowship per il lavoro creativo nel campo del cinema. Il risultato, tuttavia, non è diventato un film, ma bensì un libro: Divine Horsemen: The Living Gods of Haiti. L'intenzione originaria di Maya Deren era di andare ad Haiti per filmare le danze rituali legate al voodoo. Dopo ore di girato, si rese conto che il lavoro richiedeva però un supporto diverso dal film, che non era il medium adatto per questa ricerca, e diventò così un libro. Questo episodio mi viene in mente ogni volta che penso alla formalizzazione di un lavoro.

Hai vissuto differenti residenze, al MACRO di Roma, al De Ateliers in Olanda; che ruolo hanno questi periodi e cosa significano per te all'interno della tua produzione artistica?
Per un periodo ho fatto alcune residenze solo perché mi sembrava una maniera remunerativa di portare avanti il mio lavoro. Un pensiero abbastanza ingenuo dato che non ho poi prodotto così tanto. Ogni volta che ti trovi in una nuova città la produzione di un progetto può risultare particolarmente problematica. L’Olanda, dove attualmente risiedo, è arrivata per caso. Inizialmente la residenza durava solo per tre mesi e poi mi sono fermato due anni e ora ci starò per almeno un altro anno. Credo sia essenziale spostarsi per trovare stimoli per il proprio lavoro ma è anche essenziale avere un luogo “fisso” costituito da una rete di persone con cui confrontarsi e con cui realizzare i lavori. Il periodo trascorso al De Ateliers è stato molto produttivo per me perché avevo una base in cui tornare e dove lasciare e ritrovare una sedimentazione di appunti, progetti e tentativi di lavoro. In quel periodo ho realizzato alcuni progetti come An inaccurate distance e A thing among things che sono stati molto importanti per me. Spesso giravo il materiale o scattavo delle foto durante un viaggio e poi “componevo” il lavoro in studio ad Amsterdam tra i tormenti del montaggio e della post-produzione.

Alla collettiva "If i were you, i'd call me us" presso la galleria MassimoDeLuca erano presenti le tue due opere "Everything into something else" mi puoi parlare di come nascono e di cosa rappresentano?
Alla collettiva "If i were you, i'd call me us" ho presentato due lavori. Uno è un video che si chiama A thing among things ed è composto da un testo e da una serie di close-up di minerali trasparenti. Il testo si basa su alcune interviste che ho avuto con delle persone che hanno perso la vista. Mi interessava cercare e collezionare degli aneddoti imprecisi e “viziate” dalla memoria. Il testo scorre sopra a delle immagini astratte che parlano di qualcosa che pensiamo di vedere o che supponiamo di intuire. L’altro lavoro presentato si chiama Everything into something else ed è una serie di foto di specchi antichi, ossidati e che hanno perso la capacità di riflettere. Ho scattato una foto in pellicola e ne ho poi stampato il negativo. Volevo fare come un calco di una superficie che rifletteva immagini e che è ora diventata cieca. In entrambi i lavori ero attratto da quello che non c’è, ma che può essere ipotizzato o solo pensato: il fantasma di un'immagine.

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