venerdì 20 maggio 2016

interview with Elena Mazzi

Elena Mazzi, classe 1984, vive e lavora a Venezia, città da cui trae ispirazione per dare vita ai suoi progetti. La sua arte indaga sulla relazione uomo/ambiente, attraverso una visione antropologica come collettività e singolo, come parte e tutto dell'ambiente stesso. Il lavoro di Elena Mazzi porta lo spettatore ad una riflessione personale su quello che lo circonda; vi propongo di seguito un'intervista con l'artista reduce dalla Biennale ad Istanbul e della mostra al GAM di Torino.


Chi è Elena Mazzi? Qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?

La mia passione per il disegno, che mi accompagna fin da bambina, e l'interesse per la storia dell'arte, sviluppato alle scuole superiori e durante i viaggi domenicali, inizialmente con i miei genitori, poi con compagni di scuola e università. La necessità di guardare, approfondire, analizzare, ricercare. Non ho mai ambito a specializzarmi in una tecnica, mi piace sperimentare e indagare diversi procedimenti, confrontandomi con esperti di ogni settore.

Hai studiato e lavori a Venezia, che ruolo ha per te questa città? ricordo la tua opera esposta alla Fondazione Bevilacqua la Masa con Stonefly e le tue collaborazioni con le vetrerie di Murano per citarne alcuni.
Venezia è la città in cui ho studiato, e di cui, da quel momento, mi sono innamorata. Amo le sue dimensioni, piccole e labirintiche, amo il fatto che sia al contempo internazionale e locale, nei suoi estremi. Amo poter avere la possibilità di avere accesso a grandi mostre con regolarità, e la presenza di un forte artigianato locale, dislocato tra isole e periferia. Trovo la sua geografia particolarmente interessante, soprattutto per il forte legame tra terra ed acqua, sempre presente, che condiziona la vita di ogni giorno. Venezia mi rallenta, mi aiuta a riflettere e pensare, ma mi da anche la possibilità di assistere ad interessantissime lezioni all'Università (sia Cà Foscari che IUAV) e di partecipare ad un continuo confronto e scambio con artisti, sia giovani (che frequentano le università o l'accademia) che più maturi (professori, ricercatori, o partecipanti alle mostre in città).

Utilizzi varie forme espressive, dalla performance all'installazione, i tuoi lavori indagano sul rapporto uomo/ambiente come un contrasto/dialogo fra quello che ci circonda. In cosa consiste e su cosa si focalizza questa tua ricerca?
La geografia sta alla base di tutto e, con essa, un forte interesse per ciò che la lega alla dimensione umana: una sorta di antropologia visiva. Viaggiare è per me una necessità, e farlo con la consapevolezza dei luoghi che visito, per periodi più o meno lunghi, è fondamentale. Capirne e studiarne le caratteristiche fisiche e sociali, confrontarmi ed entrare in contatto con persone del luogo che possano aiutarmi in una lettura non superficiale, indagarne gli aspetti più nascosti, non visibili ad un primo sguardo. Le tecniche con cui decido di operare derivano da queste ed altre ricerche, ed hanno spesso a che vedere con ciò che trovo in loco.

Fra i tuoi lavori ritengo molto interessante "Moving Memories", una performance video in collaborazione con altre artisti che si è svolta a San Francisco; mi puoi parlare di questo lavoro, com'è nato? e cos'ha significato collaborare con altri artisti nel processo creativo?
Moving memories parte dalla stima per il lavoro di un gruppo di artisti proprio di San Francisco, i Future Farmers. Avevo visto il loro lavoro da giovanissima in diverse mostre in Italia; ne ho poi studiato il lavoro durante un workshop all'Università condotto da Marjetica Potrc, mia mentore, a cui devo molto. Approfondendo la loro pratica, ho sentito l'esigenza di confrontarmi direttamente con loro e così ho fatto domanda per una borsa che mi permettesse di passare un periodo di tempo a San Francisco. La città è sempre stata luogo di trasformazione sociale e politica e continua ad esserlo. Nell'ultimo decennio in particolare, le grandi corporation situate nella Silicon Valley, non lontano dalla città, ne hanno trasformato la conformazione, gentrificando svariati quartieri, in particolare quelli orientati a sud della città. Parlo del quartiere della Mission, area storicamente latina (messicana) caratterizzata da una temperatura mite e soleggiata, a differenza del resto della città che, essendo situata in una baia, è spesso ventosa e soggetta a cambiamenti climatici repentini. Qui sono entrata in contatto con archivi e organizzazioni locali, cercando di capirne e studiarne la storia, travagliata, per poi arrivare agli ultimi sviluppi, che prevedono la delocalizzazione della comunità in questione, costretta a dover abbandonare il quartiere a causa dei vertiginosi affitti in crescita, possibili grazie a una nuova legge (Ellis eviction act) che permette di sfrattare intere famiglie in meno di tre mesi (dai 3 ai 120 giorni di preavviso). Prima di tutto ho condotto interviste nel quartiere, da cui è nato un video documentario. Poi ho sentito l'esigenza di trasformare il lavoro in performance, occupando un'area abbandonata e privata, da tempo luogo di rifugio di writer, senzatetto e alcolizzati. Ho deciso per un giorno di riqualificarla, rendendola culturale e vivibile, e permettendo ad ognuno di potersi esprimere a proprio piacimento. Per un giorno organizzazioni locali, redazioni, adulti e bambini, artisti chicani (latino-americani), e i Future Famers stessi hanno contribuito a rendere quel luogo abbandonato terra comune, mostrando il loro archivio personale del quartiere, fatto di foto storiche, narrazioni, libri, disegni, canzoni e terra. Mi interessava l'aspetto comune di quel luogo, costretto tra edifici in veloce trasformazione, e situato sull'arteria principale del quartiere, ancora luogo molto latino (a differenza della strada parallela, completamente gentrificata). Ancor di più però mi interessava vedere quale sarebbe stata la risposta del privato, in America solitamente molto presente. Mi aspettavo che la polizia sarebbe entrata in azione dopo poco. Avevo deciso di disporre all'interno dello spazio diversi mobili (cassettiere, scaffali, poltrone, divani) per occuparlo fisicamente, oltre che attraverso le nostre azioni. La polizia è passata a controllare, ma ci ha lasciato fare, senza chiedere se l'azione avrebbe avuto una durata temporanea o meno. Da qui poi, i cittadini hanno deciso di utilizzarlo più volte, per azioni quotidiane e performance nel quartiere.


Eri tra gli artisti selezionati alla Biennale di Istanbul, che rilevanza ha questa tappa nella tua carriera artistica?
E' stato per me un momento importante, di confronto con alcuni degli artisti che da sempre vedo come mio riferimento, ma anche di grande studio del tema trattato, e dell'attenzione al dialogo tra discipline diverse. E' una Biennale che da anni dimostra di fare scelte di qualità, e che quest'anno a mio avviso si è superata con la scelta della curatrice di dislocarla in tantissimi luoghi chiave di una città complessa quale è Istanbul, focalizzando l'attenzione sulla sua geografia che, per la sua complessità e per la mia esperienza precedente durante gli anni di Università, adoro. La Biennale è capitata in un momento 'caldo', durante l'emergenza migranti. Ci sono state divergenze e polemiche, anche tra gli artisti stessi: alcuni sostenevano di voler 'chiudere' la proprio sede di esposizione in protesta agli eventi in corso, dal mio punto di vista invece, il nostro lavoro poteva dare forza e sostegno alle prese di posizione politica di quei giorni, così ho lasciato la mia sede aperta.

Il progetto è al momento in mostra alla GAM di Torino, puoi parlare di questo lavoro e di come nasce?
Ciò che è presente in GAM, ossia il video LACUNA-Land of hidden spaces, è parte di un progetto più ampio dal titolo Reflecting Venice, su cui ho lavorato per un paio d'anni, dal 2012 al 2014.
Credo che sia interessante vederlo inserito all'interno del contesto di questa mostra, intitolata 'ORGANISMI. Dall'Art Nouveau di Emile Gallé alla bioarchitettura', una mostra storica sull'Art Nouveau, che con abilità la curatrice è riuscita a declinare in più sfaccettature.
LACUNA, e più in generale tutto il progetto di Reflecting Venice, parla della crisi ambientale della laguna veneziana, da più punti di vista: il turismo di massa che la opprime, il pericolo in cui vige la sua complessa geografia, ogni anno sempre più minata dal passaggio di grandi navi, la perdita della tradizione culturale di alcuni mestieri legati alla lavorazione del vetro. Tutto si confronta e confonde in un dialogo costante, che ho voluto tradurre in più opere, prima tra tutte uno specchio solare, creato in collaborazione con lo scienziato Hans Grassmann, professore all'Università di Udine e fondatore dell'impresa Isomorph. L'installazione si compone di una serie di specchi che, riflettendo la luce solare su un pannello scambiatore, raccoglie energia solare, riprendendo le teorie di Archimede. L'invito a collaborare, venuto dallo scienziato stesso, è stato per me di grande stimolo: la necessità di un ritorno al confronto tra discipline diverse, come si usava un tempo costituisce un cambiamento di rotta significativo nel panorama contemporaneo. Collaborare per raggiungere un obiettivo comune, nelle modalità più disparate, è ciò su cui mi interessa lavorare. Così ho deciso di accogliere la sfida e di calare l'installazione solare nel contesto veneziano, famoso per le sue lavorazioni su specchio (tecnica quasi caduta in disuso per dare sempre più spazio alla soffiatura, più spettacolare a scopi turistici) in particolare per la tecnica dell'incisione, che ormai solo tre laboratori muranesi portano avanti. Gli specchi sono quindi stati incisi con motivi di piante presenti nelle barene veneziane, territori lagunari destinati a scomparire a breve, a causa del continuo passaggio di motoscafi e grandi navi che spostano grandi quantità d'acqua, danneggiando i fondali (causa anche del peggioramento del fenomeno dell'acqua alta). Le barene sono sempre state protette da piante particolari, esteticamente brutte ma molto funzionali, che per le loro caratteristiche sono in grado di 'far respirare' la laguna, assorbendo sia acqua dolce che salata. Ho trovato questa restituzione su vetro particolarmente significativa, soprattutto per l'idea che una tipica decorazione floreale incisa su specchi di grandi dimensioni, e usata in passato per arredare grandi palazzi veneziani, ora veda come soggetto iconografico piante non particolarmente belle dal punto di vista estetico, ma che una volta incise lo diventano, aggiungendo un altro livello di significazione a quello di per sé importante della funzionalità dello specchio. Questo lavoro è stato lungo e complesso, sia nella fase di produzione che di gestione, incontrando molti ostacoli da parte delle politiche locali, ancora incentrate su obiettivi di rendita immediata di un prodotto e scettiche su possibili alternative energetiche. Vedo la parziale sconfitta come parte del lavoro, e rimango comunque molto soddisfatta del risultato.

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