Montecristo Project, nato in Sardegna nel 2016, è un progetto artistico di Enrico Piras e Alessandro Sau che unisce pratica curatoriale e ricerca visiva. Mostre senza pubblico, luoghi remoti e narrazioni parallele ridefiniscono il rapporto tra opera e contesto. In questa conversazione, ripercorriamo le origini del progetto, le sue evoluzioni e l’universo di Deltitnu.
Come nasce Montecristo Project e chi c’è dietro al progetto?
Iniziamo col presentarci: Montecristo Project è un progetto nato in Sardegna nel 2016 dalla collaborazione dei due artisti Enrico Piras e Alessandro Sau. Qualche anno prima, nel 2013, entrambi siamo tornati a vivere a Cagliari dopo esperienze di studio in campo artistico all’estero e, seppur venendo da pratiche e ricerche molto differenti, abbiamo riconosciuto nella ricerca l’uno dell’altro lo stesso approccio: basato sullo studio teorico e su un comune interesse per temi filosofici e antropologici, oltre a un forte mordente nella necessità di creare immagini a prescindere dalla nostra legittimazione come artisti in un sistema dell’arte che con la Sardegna ha ben poco a che fare. Abbiamo così iniziato a creare una nostra modalità alternativa di presentare le opere, servendoci inizialmente di luoghi remoti, isolati e inaccessibili in Sardegna, costruendo mostre che ci vedevano come artisti, curatori e unico pubblico, diffondendo poi le immagini come documentazione fotografica (ma anche come opera) di questi eventi. A partire da qui, man mano che il progetto veniva lentamente riconosciuto oltre i confini sardi, abbiamo iniziato a presentare – oltre ai nostri lavori – anche quelli di altri artisti. È stato allora che abbiamo scelto di rendere il progetto ancora più estremo e radicale, servendoci di una piccola isola deserta al largo delle coste sarde per presentare le opere nell’unica architettura presente sull’isola: una torre di avvistamento spagnola del XVII secolo. L’ubicazione dell’isola viene mantenuta segreta e le mostre sono accessibili solo agli artisti partecipanti. Pian piano Montecristo Project – il cui nome è ovviamente legato al “Conte di Montecristo” di Dumas e alla sua isola del tesoro – si è trasformato in un contenitore più ampio, ospitando diverse mostre, testi e dialoghi con filosofi come Raffaele Alberto Ventura e Vittorio Parisi, e aprendo anche un “mountain department” nascosto nelle montagne sarde.
Con la mostra di Salvatore Moro, abbiamo cercato di dare alle opere quasi un mondo nel mondo: una possibilità per l’opera di esistere nel modo più bello e autentico possibile, a prescindere da tutte quelle cornici sociali, economiche e storiche senza le quali sembra che l’arte non possa più essere. In tutto questo, per tornare a chi si trova dietro al progetto, anche il nostro lavoro artistico personale si è evoluto: abbiamo lavorato alla costruzione di display per le mostre intesi come opere d’arte che accolgono le altre opere. E soprattutto, siamo partiti da due ricerche ben distinte per mezzi espressivi, per arrivare alla realizzazione di opere a quattro mani.
Il vostro è un progetto artistico-curatoriale. Come bilanciate i due aspetti all’interno della vostra ricerca? Qual è il ruolo della Sardegna, dove avete base?
La ricerca artistica oggi tende generalmente a considerare le modalità di presentazione del lavoro stesso; si tratta ormai di meccanismi intrinseci alla concezione dell’opera. Nel nostro caso, questo risvolto espositivo non è tanto legato a un pubblico, quanto alla possibilità di dare all’immagine una dimensione ideale. La scelta di ambienti come tombe prenuragiche, bunker e grotte ha a che fare con la natura stessa delle opere e funge da amplificatore nella fase espositiva e fotografica. Nella nostra idea iniziale, le opere non dovevano essere site-specific rispetto all’ambiente espositivo, ma è l’ambiente che deve essere work-specific: non è il lavoro artistico a divenire opera se esposto in un determinato contesto, ma è semmai il luogo ad assumere una sacralità quando vi viene presentata l’opera. La curatela, per noi, consiste proprio in questo: partire dall’opera concepita come un assoluto, e creare dispositivi e strutture che ne amplifichino il senso. In questi termini, la curatela è un atto artistico, in quanto si basa sulla produzione, sull’alterazione e sulla ricontestualizzazione dell’immagine. La Sardegna è fondamentale nella nostra ricerca: siamo ormai certi che non riusciremmo a lavorare altrove. Ci piacerebbe che le nostre opere incorporassero e si fondessero con il territorio, con i segni materiali e immateriali che lo caratterizzano, e che fossero percepite come espressione della Sardegna da chi ci segue al di là del mare.
Come si inserisce il progetto “Occhio riflesso” e come è evoluto? Qual è il ruolo degli spazi che create?
“Occhio riflesso” è stato la radice di tutti i successivi percorsi che abbiamo sviluppato. È un progetto realizzato tra il 2013 e il 2015, composto da sei mostre bipersonali in Sardegna, installate in ambienti inusuali e radicali: tombe prenuragiche, grotte, bunker e architetture vernacolari sarde.
Il tutto è stato realizzato senza pubblico, senza curatela, senza produzione, documentando le mostre con fotografie che, pur rifacendosi ai consueti canoni dell’installation shot, ne alteravano la semantica asettica e minimale. L’evoluzione naturale è stata trasformare questo approccio in una dimensione anche curatoriale, invitando altri artisti a lavorare con noi secondo queste modalità. La prima mostra sull’isola fu di Salvatore Moro; il primo invito a un artista vivente fu rivolto a Tonino Casula, grandissimo artista cagliaritano scomparso nel 2022, con cui collaborammo nel 2016, creando sculture che ospitavano le proiezioni dei suoi video digitali. Dal 2015 in poi, in ogni mostra abbiamo costruito spazi, plinti o fondali che si rapportassero alle opere esposte, creando una fusione tra l’opera e la sua dimensione espositiva. Quello che è cambiato principalmente tra i due progetti è che, oltre a scegliere ambienti specifici, abbiamo iniziato a costruire gli spazi stessi, intesi come opere autonome in cui ospitare le opere degli artisti.
Cosa caratterizza e come si inserisce nella vostra pratica Deltitnu, il personaggio recentemente esposto alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo?
Deltitnu è il nostro progetto più recente, iniziato nel 2022. È per molti versi la summa dei percorsi precedenti, strutturato come un romanzo di formazione. Il protagonista, Deltitnu, è un uccellino di terra cruda che racconta la propria esperienza di giovane artista e le peripezie che chiunque si affacci al mondo dell’arte si trova ad affrontare. Deltitnu ha una forte radice narrativa: ogni episodio è sia il capitolo di una storia in divenire, sia una mostra autonoma. Tutte le figure che compongono questo mondo allegorico rappresentano artisti, curatori, galleristi, critici, ognuno dei quali dà vita a una specifica visione e a un corpus di opere “animale-opera-artista”. Anche in questo progetto utilizziamo le modalità espositive di Occhio Riflesso, scegliendo ambienti differenti. La componente testuale è centrale, e la documentazione fotografica ha un valore narrativo. Le opere dialogano tra loro e sono collocate su plinti e in spazi costruiti ad hoc. Attraverso Deltitnu, affrontiamo vari temi in chiave seria o ironica: Il rapporto artista-curatore, Le dinamiche di potere nel mondo dell’arte, La costruzione di ricerche artistiche secondo topic transitori, La possibilità di sperimentare stili e materiali altrimenti non esplorati. Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, nella mostra curata da Ursula Pokorny, sono stati per la prima volta esposti in una sede istituzionale i lavori di tre artisti: Deltitnu, la Pinguina (con opere inedite) e la scimmia Bobù.
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