Melania Fusco, classe 1987 è artista visiva che reiterpreta il quotidiano con uno sguardo obliquo e viscerale, trasformando ricordi, affetti e inciampi in immagini sospese tra sogno e corpo. Di seguito una serie di domande sugli ultimi progetti e residenze tenute dall'artista.
Chi è Melania Fusco e qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Fin dall’infanzia ho cercato di coltivare uno sguardo obliquo sul mondo, una sorta di lente o filtro che mi permettesse di attraversare le giornate, i mesi e il passare degli anni in armonia con un sentire intimo. Al di là della formazione scolastica, per me la vita è una costellazione di incontri. In questa mappa stellare, ho provato a scegliere la mia traiettoria seguendo l’olfatto emotivo, un fiuto viscerale che mi ha guidata verso tutto ciò che potesse contribuire alla mia trasformazione, sia personale che intellettuale. Potrei dire che il mio percorso ha avuto inizio nel parco dove sono cresciuta. In un garage condominiale si trovava lo studio di un artista, amico di famiglia, che ho frequentato quotidianamente dall’età di cinque anni fino all’adolescenza. Era un luogo misterioso e affascinante, che non comprendevo del tutto ma che teneva accesa la mia curiosità. Poi c’è mia nonna: figura cardine della mia formazione affettiva ed estetica, esempio vivente di una pratica quotidiana del performare la vita in modo buffo, esagerato, bugiardo e tenero. L’università, Venezia, i workshop, le residenze… e infine la serenità di dirsi artista. Una consapevolezza arrivata come un prurito sotto pelle, piuttosto che tramite una prassi espositiva e professionale.
La tua ricerca ruota attorno al corpo e alla rappresentazione del quotidiano. Come prende forma?
La mia ricerca procede di pari passo con una serie di esperienze che fanno parte della mia storia personale. C’è quasi sempre un richiamo, anche solo evocativo, a paesaggi interiori e familiari, che cerco di traslare all’interno dei progetti sotto forma di presenze fantasmatiche, con impeti cromatici radical pop e, come sottofondo, una lunga melodia stonata e malinconica. Sono cresciuta negli anni ’90 e queste atmosfere me le porto dietro da lì. I miei lavori sono immagini di stati d’animo, di frustrazioni latenti, di interruzioni dilatate. Sono tentativi di costruire narrazioni alternative rispetto a quelle che ho ereditato come “sicure”, ma che, nella mia esperienza, possono generare un disallineamento tra ciò che sei e ciò che desideri. Per “narrazioni sicure” intendo, per esempio, la presunta linearità di alcuni passaggi esistenziali o professionali che, quando deviano da quella traiettoria prevista, sembrano portarci in un territorio di irresolutezza. È un po’ la storia di quello che vivo e del mio lavoro.
Nel 2021 hai presentato Fataitá a Spazio Su. Cosa prevedeva la personale?
Le relazioni, nella mia pratica, occupano un altare privilegiato. Ringrazio i legami che riescono ad attivare in me riflessioni trasformative, che spesso si aprono a dinamiche più ampie, persino universali. Fataitá è nato proprio da uno sforzo condiviso. Molte persone mi hanno accompagnata nella sua elaborazione, sia concettualmente che praticamente, condividendo dubbi e profondità. In mostra era presente uno spazio-gioco scultoreo: una sorta di dama in cui due proboscidi antropomorfe dialogavano e instauravano una relazione di potere attraverso un dislivello di posizione. Tra l’alto e il basso si dispiegava un’eco di sguardi interdipendenti, e chi visitava la mostra aveva la sensazione di interrompere qualcosa — una partita, una discussione, una serenata o una litigata. A segnare l’epilogo tra le due sculture, un’icona silenziosa disegnata sulla parete: una presenza muta e arcaica, una creatura saggia e primitiva. L’intera scena era immersa in una luce rosa, proveniente da una finestra, come a voler trasformare tutto lo spazio in una grande pancia. Fataitá raccoglieva e sintetizzava molte suggestioni: le odalische di Matisse, un poemetto erotico veneziano dell’800, l’immaginario grottesco e misterioso dei freak show. Ne è nata un’immagine site-specific in bilico tra sogno e fatalità. E proprio la fatalità, in quel momento, era la fascinazione per l’inciampo: quel breve istante in cui si vacilla e si viene catapultati in uno scenario nuovo, impensabile fino a pochi attimi prima.
Hai recentemente partecipato alla residenza MAC. Mi racconti l’esperienza?
A MAC ho scelto di lavorare sugli affreschi disseminati in molte sedi della città — penso, ad esempio, alla Cappella degli Scrovegni o alla Chiesa degli Eremitani. Non ho ricevuto un’educazione religiosa e il mio rapporto con la pittura medievale nasce da una curiosità viva per le storie che racconta. Mi affascina la struttura episodica delle scene, le pose di disperazione e sacrificio nelle rappresentazioni della Passione, le iconografie mostruose dei vizi e dell’inferno. Queste immagini, all’epoca, funzionavano come giganteschi spot pubblicitari: grandi pagine in cui la pittura aveva la stessa funzione della scrittura, educando e indottrinando una popolazione in gran parte analfabeta. Il lavoro che ho iniziato a Padova è ancora in corso, perché il tentativo di queerizzare il romanzo biblico ha molte sfumature. Per esempio: cosa succede se Maria, nel momento dell’Annunciazione, risponde all’arcangelo che il suo messaggio può rispedirlo al mittente? È una provocazione, un gesto per ripensare il ruolo simbolico di questa figura e il modo in cui ha influenzato l’immaginario del corpo femminile, sospeso tra conflitto e desiderio. I lavori che ho prodotto assumono la frantumazione dei corpi come leitmotiv. Per frantumazione intendo un insieme di frammenti rotti e ammaccati che, tenuti insieme a stento e in un equilibrio precario, provano a immaginare un corpo ibrido che, nel suo essere parzialità, sappia dire di sé molto di più di un corpo integro.






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