MiamiSafari, Alessia Prati e Matias Julian Nativo, è un due artistico la cui ricerca indaga sulla definizione di un’identità artistica ibrida e fluida attraverso la creazione di uno spazio progettuale aperto, nato dall’incontro tra self-publishing e performance. I lavori nascono dall'interazione con altri artisti che si intrecciano con la loro pratica prendendo differenti forme e declinazioni. Di seguito l'intervista con il duo.
Chi sono i MiamiSafari e qual'è il vostro percorso?
Quando è nato nel 2018 era un trio, poi è diventato un collettivo che si espande e si restringe
continuamente attraverso la presenza di altre persone, con cui scegliamo di condividere un
momento – a volte due giorni, altre volte un anno – della nostra pratica. Nella versione più
contratta è un duo (Alessia Prati e Matias Julian Nativo).
Vediamo MiamiSafari come un progetto culturale nato per dare forma alle nostre riflessioni, alle
nostre passioni e ai nostri incontri attraverso un linguaggio che sfrutta il potenziale
dell’accettazione radicale di un’identità in transizione, dove niente è mai posizionato
definitivamente. È un progetto che sicuramente risente dei numerosi percorsi di formazione e
professionali che abbiamo intrapreso, a volte soltanto iniziato, nelle arti visive, nel publishing, nella
musica, nella letteratura, nella moda, che interpretiamo come sfumature di un’unica espressione e
che, soltanto, per praticità nel comunicarci indichiamo come discipline distinte.
Cosa caratterizza la vostra ricerca e quali sono i temi che indagate?
Siamo sicuramente molto influenzati dall’attitudine con cui abbiamo vissuto fin da adolescenti la
musica. È da moltissimo tempo, infatti, che condividiamo ascolti, letture, spazi, casa, vestiti.
Abbiamo sempre considerato gli album e i concerti come esperienze culturali totalizzanti, fatti non
soltanto di suoni, ma anche di spazi, parole, gesti, atteggiamenti, letteratura, font, magliette,
scarpe e tagli di capelli. Questa attenzione filologica ai dettagli è stata in parte abbandonata nella
nostra pratica artistica soprattutto grazie alle collaborazioni. Oggi ci prendiamo molto meno sul
serio e l’errore, lo spostamento, la sbavatura costituiscono un momento fondamentale che
ricerchiamo costantemente nelle opere. La presenza dell’altro è, pertanto, strutturale, invade ogni
momento della progettazione, è quello strumento attraverso cui le parole e le prosodie cambiano.
Non è un tema ma è un piano su cui la nostra ricerca si definisce e palesa delle istanze di natura
politica. Piuttosto che di tematiche forse potremmo parlare di immaginari e di esperienze
collettive, che coinvolgono il corpo nella sua totalità, la sua performatività, le sue strategie di
comunicazione e di creazione di senso.
Il self-publishing è parte del vostro lavoro, come ad esempio Meet me in the bathroom e
flexin flexin try to exercise, come nascono questi progetti e come si collocano all'interno
del vostro percorso?
Il self-publishing è una delle modalità espressive che preferiamo, che permette più esplicitamente
di altre di far collidere una certa estetica DIY con l’aspetto estremamente politico del DIWO. Le
nostre pubblicazioni nascono da un board editoriale sempre diverso e coinvolgono sempre altrǝ
autorǝ. Giusto per fare un esempio, Meet me in the bathroom ne coinvolgeva ventisei tra artistǝ
visivǝ, performativǝ e fashion designer. Quella del publishing è un’esperienza davvero centrale
nella nostra pratica, presente in molte delle nostre opere; le due che hai citato sono soltanto le
uniche ad avere una veste più tradizionale. Molte delle nostre pubblicazioni, infatti, eccedono il
formato libro; sono font, poster, lettering tatuati, amiamo i prespaziati, how long have you known?
era un cartellone pubblicitario realizzato su un camion vela con lo spazio MASSIMO di Milano
insieme ad altrǝ quattro artistǝ.
Sia flexin flexin try to exercise che Meet me in the bathroom – due pubblicazioni, ma anche due
pezzi, come MiamiSafari e how long have you known? – nascono durante il nostro percorso allo
Iuav di Venezia, di cui ereditano la predisposizione a una progettualità transdisciplinare. La
triangolazione anche in questo caso è tra arte visiva, musica e moda. Sono entrambi dei tascabili
in bianco e nero, ma mentre il primo è principalmente visivo, il secondo accoglie una riflessione
più accademica sulle pratiche artistiche che ibridano editoria e performance e una serie di
bellissime conversazioni avute con artistǝ italianǝ contemporaneǝ. Dobbiamo dire che sono stati
due momenti fondamentali per chiarire e fare un punto, soprattutto a noi stessi, delle aspirazioni e
degli atteggiamenti che volevamo avere con il progetto MiamiSafari.
Come as you profile, mi raccontate questo progetto?
Come as you profile nasce da un rapporto di stima e di amicizia con l’artista Mara Oscar Cassiani,
che ci ha invitato circa un anno fa a collaborare a un intervento digitale per Nao Performing
Festival, che in qualche modo raccogliesse le nostre riflessioni e le nostre lunghe chiacchierate. È
pensato come un dance floor virtuale in cui collidono le tracce sentimentali disseminate nel web
da Mara con la nostra ricerca sui gesti, le posture e le sopravvivenze emotive delle sottoculture
musicali. È una raccolta di ephemera e residui che fluttuano come rumori fuori dalla coerenza e
dall’aderenza filologica a un movimento originario. È stata l’occasione per un solo di pogo nello
spazio reale della propria stanza da letto e virtuale dello schermo. Con il tempo ci sembra di
riconoscervi la sensazione di contrizione, che abbiamo vissuto in quello che allora era il nostro
appartamento in una Berlino silenziata.
In collaborazione con Daniele Costa sono nati tre capitoli di Megamore, come nasce questo
progetto e cosa caratterizza ogni capitolo?
Megamore è una riflessione centrifuga intorno a due versi tratti dalla Gerusalemme Liberata (1581)
e l’occasione della durata di circa sei mesi che ci siamo dati per mescolare la nostra pratica con
quella di Daniele. Le tre composizioni – tre post IG per Brucia ragazzo brucia!
sul profilo del fashion designer Marco Rambaldi e due installazioni performative, la prima
realizzata a Padova per So contemporary!, la seconda a Battaglia Terme per Una Boccata d’Arte –
tengono insieme linguaggi, momenti, storie e persone senza gerarchie, senza un inizio, uno
sviluppo o una fine. Il trittico è il tentativo di stare sui margini tra i fantasmi resistendo a una forma
coerente, che fornisca a ogni elemento una posizione e una funzione; una narrazione barocca
fatta di più movimenti intorno a una spada che si piega per non uccidere. Ciascun capitolo risente
allo stesso tempo del precedente, che viene rievocato attraverso le tracce disseminate tra i suoni,
le immagini, gli abiti, i corpi dellǝ performer, e dello spazio in cui viene presentato, che immette
nella narrazione altri layer e altre voci. Non ci piacciano le metafore, però Megamore ci ricorda da
lontano l’evento live a chiusura della stagione 10 di Fortnite, un dispositivo – nel caso del gioco un
vero e proprio buco nero – che alla fine risucchia tutto.
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