mercoledì 13 ottobre 2021

Interview with Daniele Costa

Daniele Costa, classe 1992, è artista visivo italiano la cui ricerca è focalizzata sul corpo attraverso le sulle immagini in movimento. Un approccio medico-scientifici e la conoscenza dell'individuo caratterizzano i suoi lavori, dove la narrazione si articola attraverso immagini statiche e in movimento che l'artista elabora e ripropone. Di seguito l'intervista con Daniele. 


Chi è Daniele costa e qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Vorrei rispondere come si rispondeva nelle serie tv cult degli anni 2000. Daniele Costa è un artista visivo che utilizza le immagini in movimento come mezzo di ricerca. Vive e lavora tra Castelfranco Veneto e Venezia. Il mio percorso parte da studi legati al cinema per poi proseguire con la magistrale in arti visive allo Iuav di Venezia. Sempre rimasto coinvolto dalle immagini in movimento, con la possibilità di gestire, raccogliere e consegnare tempo. Il percorso verso la parte artistica è stato dettato dalla possibilità di generare in maniera fluida immagini, nuove realtà e possibilità narrative. 

La tua ricerca è un indagine sull'introspezione personale attraverso il video, cosa la caratterizza nasce e come prende forma? 
Il percorso di ricerca parte dal corpo con l’intento di traslare parentesi di vissuto in materia filmica. Il corpo come sovrascrittura di identità, porzione di materia complessa a cui si conferisce un’individualità, la singolarità umana e i riflessi che essa proietta nella narrazione di una storia collettiva. In questo percorso di indagine la ricerca ha sempre preso coscienza sull’altro anche in una modalità quasi performativa, l’avvicinarmi mette in relazione il mio corpo in fase di ripresa video al corpo dell’altro, in una logica di compenetrazione e scambio. Per farlo, indago da una parte il funzionamento dell’umano attraverso l’apprendimento diretto di nozioni medico scientifiche, affinché svelino le sincronie e ritmicità da cui è regolato, le strutture e i funzionamenti autonomi che ci sono tecnicamente sconosciuti pur appartenendoci. Dall’altra, approfondisco la conoscenza di un individuo concentrandomi su aspetti della sua vita che lo definiscono e lo situano nel proprio contesto, con riferimento all’esigenza interpretativa che lo stesso attua nei confronti di ciò che lo circonda.

What do you sea? è il progetto sviluppato nell'archivio del Touring Club, mi racconti in cosa consiste il progetto? 
Il progetto è partito dall’idea di collaborare con CampoBase in una logica di relazione, produzione e creazione di un lavoro insieme. CampoBase è un collettivo curatoriale che all’interno vede la partecipazione di diverse figure: lavorare a stretto contatto con loro ha portato il progetto ad un livello di condivisione e visione superiore. What do you sea? si innesta all’interno della piscina Cozzi di Milano, che non è solo scenario, ma anche elemento centrale del lavoro. A partire dalla piscina stessa, infatti, la ricerca portata avanti propone un approccio a-sistematico ad un archivio, quello del Touring Club Italiano, organizzato per geografie e temporalità precise. Questo viene interrogato con uno sguardo trasversale che si mette sulle tracce di quello che, in una rivista del Touring stesso, viene definito “il mare di chi non ha il mare”. Nell’indagine condotta tra le architetture di piscina Cozzi e i fondi del Touring è centrale l’esperienza della surroga dell’acqua, dell’acquatico e di ciò che vi sta intorno: la socialità, l’ambiente, la città. La surroga è intesa come strumento trasformativo di una modernità che, negli anni in cui è costruita piscina Cozzi, non distanti da quelli in cui nasce il Touring stesso, sta iniziando a cambiare radicalmente il volto del Paese. What do you sea? ricostruisce i ricordi legati all'esperienza della surroga: sullo specchio della Piscina Cozzi emergono immagini di gite al lago, di tuffi a secco, alternati a riprese di colonie marine e di litorali affollati durante la stagione estiva.

Dalla collaborazione con i MiamiSafari è nato Megamore, come nascono questi tre capitoli e cosa li caratterizza? 
La collaborazione con i Miamisafari (Alessia Prati e Matias Nativo) nasce con l’intento di creare delle alleanze a livello artistico e relazionale. Collaborare con Matias e Alessia ha aperto nuove realtà, conversazioni fluide e non autoriali, fatte di possibilità e tracimazioni. Il tutto è nato da un invito di Beatrice Favaretto che mi ha chiesto di partecipare a Manifesti Futuri per il brand di moda Marco Rambaldi, con l’occasione ho invitato i ragazzi ed è iniziato il percorso, poi portato ad una parte due in occasione di So Contemporary, programma nell’ambito del festival Arcella bella di Padova grazie alla curatrice Caterina Benvegnù. Infine, un terzo capitolo è stato sviluppato in occasione del public program di Una Boccata d’Arte a Battaglia Terme a cura di Stefano Volpato, Giovanni Paolin e Eleonora Reffo, presso l’ex stabilimento termale Inps. L’opera è uno sguardo queer sulla tradizione letteraria, un attraversamento che gioca con i topoi letterari spostandoli al di là della norma. Quello che ci siamo proposti è di abitare la Gerusalemme liberata (1581) di Torquato Tasso attraverso dei corpi e uno sguardo in grado di decolonizzare, di scrivere una storia diversa, in cui gli amanti e i vinti non si redimono tramite la conversione all’amore per l’altro o al cristianesimo. L’opera tratta della definizione di identità, di incontri e di alleanze, indagando il corpo come sovrascrittura di gesti e fluidità.  

Il tuo ultimo progetto si intitola Trapezia, mi racconti in cosa consiste?  
Trapezia è il progetto a cui sto lavorando in questo momento, con il quale ho vinto il premio Lydia! all’arte contemporanea emergente 2021. Verrà presentato al festival del Lazzaretto a metà novembre prossimo. Sono molto legato a questa opera, nata circa un anno fa quando ho conosciuto la Trape. Il progetto infatti si basa sulla figura di Trapezia Stroppia, drag queen del Toilet Club di Milano, performer, artista, “ragazza di Porta Venezia” e manifestazione altra di Aurelio, laureato in comunicazione e didattica dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. La Trape, nome d’arte di Aurelio e nickname di Trapezia Stroppia, nel quadro pandemico odierno ha dato vita a una serie di video e dirette sul suo profilo Instagram (https://www.instagram.com/la_trape/) esibendosi all’interno della sua abitazione privata e lavorando al limite tra la performance drag e la parodia dei tutorial. Così facendo, ha ridefinito non solo i luoghi di espressione del suo artificio drag (dal club alla sua abitazione privata), ma anche i ruoli e i rapporti relazionali in gioco in un’economia postmediale. Il progetto parte dalla volontà di rappresentazione de La Trape, un sé che si trasforma e si traspone in pluralità. In questo manifestarsi, viene preso in esame il momento pandemico e la risposta alle contingenze odierne che hanno escluso la presenza fisica dalle possibilità delle pratiche performative: quando il palco diviene virtuale la nostra presenza si fa sempre più intangibile fino a diventare “apparizione”. Si ottiene così una forma digitale da indagare in contrapposizione alla persona fisica, alle sue paure e angosce. Lo spazio delle riprese sarà  il fulcro centrale dell'opera video, la casa dove abita e vive la Trape diventa anche il set per le sue dirette, lo scenario per i suoi racconti, dove vita personale quotidiana di Aurelio si amalgama con la volontà di esibirsi in diretta de La Trape. Il progetto è stato girato all’interno della sua stanza, che è diventata sia set, palcoscenico, che spazio di possibilità nel quale raccontarsi intimamente: un lavoro su due direzioni, il performare esterno e il raccontarsi interno. Abbiamo girato per circa due mesi da maggio a luglio ed ora il progetto è in fase di montaggio.

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