venerdì 16 luglio 2021

Interview with Andrea Nacciarriti

Andrea Nacciarriti, Ancona 1976, è artista visivo italiano. La sua ricerca è caratterizzata dall'interazione fra ambiente naturare ad architettonico dove i suoi progetti trovano collocazione e forma; a metà strada fra l'intervento e l'abbandono. Di seguito l'intervista con Andrea.


Chi è Andrea Nacciarriti e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Un marchigiano. Mi sono accorto di un certo modo di vedere le cose…

La tua ricerca artistica interagisce con l'architettura e le sue pratica attraverso gli spazi naturali e antropologici. Cosa caratterizza la tua ricerca e come prende forma?
L’architettura non è soltanto lo strumento per la gestione dello spazio, è una ambiente politico molto complesso, l’assetto spaziale dei luoghi in cui viviamo sono il riflesso e allo stesso tempo causa dell’organizzazione sociale a cui siamo soggetti. L’analisi di Levi Strauss sulla disposizione spaziale delle costruzioni dei Winnebago, è emblematica in questo senso. I componenti della tribù dei grandi laghi quando vennero invitati a rappresentare la mappa del loro villaggio, secondo la distribuzione delle abitazioni, elaborarono due tipologie di risposte, che sottendono chiaramente alla presenza di due sottogruppi: il villaggio è visto come un cerchio per entrambi i due gruppi, ma per una parte di loro il cerchio è contenuto da un altro in cui le case sono distribuite in modo concentrico, per l’altra invece, il cerchio è più semplicemente diviso in maniera simmetrica, ossia in due distinte identità. La prima considerazione è legata al fatto che entrambi i gruppi descrivono qualcosa in cui non si riconoscono e a cui si oppongono, l’altra, è che ci sono due modi diversi per farlo e questa distopia del punto di vista, in realtà, svela come il contesto percepito e in cui viviamo sia solo una possibilità tra altre e che intervengono altri fattori associati alla disposizione spaziale perché si manifesti l’una o altre versioni, in un certo senso, mi interessa capire quanto il mio modo di percorrere un luogo è gestito da un compromesso che inconsciamente attivo attraverso la percezione che ho del luogo stesso.

La mostra CRYSTALLIZE #003 [EDAPHIC SHAPE] racchiudeva una serie di tuoi lavori in dialogo fra loro. Come nasce questo corpo di opere e cosa le caratterizza?
Ho riprodotto la follia di un gesto per forzare i limiti del pensiero rinascimentale e più in generale il progetto ideologico di un regno antropocentrico. Volevo riportare la natura all’interno del Palazzo, interrompere l’ordine della geometria aurea con qualcosa che fosse brutalmente terricolo, rituale e ma soprattutto autentico, scaturito dalla cultura contadina di cui sono intriso. La zolla di terra in bronzo e il rametto di palma sorretto dal frammento di pilastro in calcestruzzo, si presentano con lo stesso carattere invasivo, nonostante il mimetismo con cui penetrano i rapporti rigorosi della grande cucina del Palazzo, evidenziano il carattere edafico dello spazio legittimandone il gesto. Ho voluto relazionare due tempi lontani ma con condizioni corrispondenti: l’alienazione del pensiero umanistico e la violentissima progressione tecnologica dei nostri tempi che forza i tempi fisiologici dell’evoluzione dietro logiche da prestazione.

Mi racconti come nasce 00 00 00 00 00 [ESSEX STREET RETAIL MARKET]?
È nato da un’intuizione del curatore Alessandro Facente, che mi chiese di pensare ad un intervento, che coinvolgesse, non solo il Cuchifritos Gallery, per cui avrei dovuto proporre un progetto, ma tutto l’Essex Street Retail Market in cui la galleria si trovava. Uno spazio enorme, un pezzo di storia di New York nel Lower East Side coinvolto in un progetto di gentrificazione molto ambizioso. Nel 2016 abbiamo ottenuto il consenso ad utilizzarlo da entrambe le proprietà che si sono poi succedute, non sapevamo però e non abbiamo saputo come ci avrebbero consegnato lo spazio, e soprattutto quando. Il lavoro è stato un susseguirsi di ripensamenti, aggiustamenti, sino al momento in cui ci hanno detto che saremmo potuti entrare e iniziare a lavorarci, ci hanno dato una finestra di qualche mese, e ho dovuto ripensare completamente la formalizzazione dell’intervento. Il market era saturo di roba rimasta lì a marcire, tracce di vita abbandonate e riscoperte come dopo la catastrofe, macerie di civiltà gravate dal tempo che manca segnato sul countdown e in totale antitesi con il vuoto pneumatico depressurizzato con il bianco, completamente asciugato e pulito della ex galleria. Produrre l’estensione di un frammento risultante da due lassi temporali sovrapponibili ma causati da due situazioni apparentemente differenti: da una parte il tempo precedente la fine fisica del market, soggetta alle esigenze del mercato immobiliare e dall’altro il tempo di esposizione del luogo, calendarizzato dalla stampa di settore e registrato da un countdown disperso tra gli scaffali. Una pausa, una stasi che si è verificata in un punto nella linea temporale di quel luogo, un’anomalia, senza aggiungere, piuttosto configurata attraverso la sottrazione, togliendogli il tempo di vita, il presente, in un malinconico limbo di quasi tre mesi nel cuore di Manhattan.

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