Chi sono Anush Hamzehian e Vittorio Mortarotti? qual'è il percorso che vi ha portato a diventare artisti?
Abbiamo percorsi diversi, ma entrambi coltiviamo il gusto del cambiamento. Da studi universitari che avevano a che fare con la storia contemporanea o la linguistica, siamo passati alla fotografia e al film documentario. Siamo stati (e siamo tuttora) amici innanzitutto. Ci siamo conosciuti a Parigi, con una certa diffidenza reciproca, normale per quel tipo di giovani italiani a Parigi che eravamo. Ma poi qualcosa di inevitabile si è strutturato. Per anni abbiamo condotto parallelamente, ma con un'enorme curiosità per il lavoro dell'altro, una ricerca artistica. Un viaggio/progetto in Giappone, nel 2013, ha dato il via alla nostra collaborazione. "The First Day Of Good Weather" e "Après", un progetto fotografico e un film, sono nati, dopo quell'esperienza comune tra le macerie dello tsunami e le notti infinite di Tokyo. In un parco di Tokyo, piuttosto brutto, a fianco a della spazzatura, ci siamo detti che da quel momento avremmo provato a lavorare insieme. E non ci siamo più fermati. Oggi firmiamo libri, film e installazioni con i nostri due nomi, senza specificare i nostri compiti specifici. Siamo diventati una specie di collettivo a due. Sembra una battuta, ma c'è un po' di verità dietro a questa frase.
I vostri progetti indagano sulla marginalità, sia essa storica, geografica o sociale. Cosa caratterizza la vostra ricerca che prende forma attraverso installazione video e fotografiche?
Fare immagini e costruire contenitori per condividerli con il pubblico, siano questi le installazioni, i film o i libri, è una delle nostre strategie di sopravvivenza. O, detto in un altro modo, entrare nelle storie delle persone ha modellato negli anni una stampella alla quale ci appoggiamo di fronte all'esistenza. E la stampella è più solida, per il nostro modo di essere, se possiamo costruirla al margine del nostro mondo, nei dettagli storici, geografici e sociali. Come sulla frontiera tra Armenia e Iran (Eden), nel deserto del New Mexico (Most Were Silent) o nell'isola tropicale di Yonaguni (L'Isola). C'è poi da dire che la fuga è una delle nostre tematiche ricorrenti. E in fondo, l'atto stesso di andare dall'altra parte del mondo, per fabbricare le nostre storie, è una forma di fuga controllata.
Fra le ultime pubblicazioni c'è “Most Were Silent”, che termina la trilogia con the “First Day of Good Weather” e “Eden”. Cosa caratterizza questo progetto e ogni singolo suo capitolo?
È una trilogia che non avevamo inizialmente previsto, ma che si è imposta mano a mano che la realizzavamo. Storie e luoghi sono diversi, ma questi tre progetti sono accomunati dall’evidenza che i grandi eventi della Storia abbiano delle ricadute sui singoli destini, sulle traiettorie private, modificandole o stravolgendole. Inoltre, tutti e tre i lavori interrogano le dinamiche di ricostruzione della memoria. “The First Day of Good Weather” e “Eden”, i primi due capitoli, hanno come spunto una questione che concerne le nostre biografie, ma cercano un’universalità: il primo prova a rappresentare per immagini cosa succede dopo una tragedia e quali sono le leve che si mettono in moto per sopravvivere e immaginare una ricostruzione sia questa collettiva o personale; il secondo ha come teatro d’azione la frontiera e le sue asperità e la paradossale necessità umana, esistenziale di vedere nell’altro un nemico. Per “Most Were Silent” infine ci siamo scostati dal dato autobiografico recandoci in uno dei luoghi più sinistramente significativi della storia recente: il deserto in cui, nel 1945, ha avuto luogo il primo test nucleare della storia. “Il mondo non sarebbe stato più lo stesso”, dice lo scienziato Robert Oppenheimer, uno dei pochi testimoni oculari di quell’evento. Ecco, a cominciare da questa riflessione, dal fatto che uno degli eventi fondanti del tempo in cui viviamo sia stato visto da un gruppo di persone estremamente ristretto, abbiamo condotto una riflessione per immagini sul rapporto tra testimonianza diretta e memoria.
A fotografia Europea avete presentato “L’Isola”, mi raccontate il progetto?
Il punto di partenza, in questo caso, è stato il dunan, una lingua che sta scomparendo. Di qui a qualche anno gli ultimi madrelingua che la parlano moriranno e il dunan verrà con buona probabilità dimenticato. Durante il primo sopralluogo sull’isola di Yonaguni, l’isola in cui si parla il dunan, grazie anche alla collaborazione con il Professor Patrick Heinrich, sociolinguista di fama internazionale, abbiamo realizzato che insieme ad una lingua se ne vanno per sempre conoscenze, storie, miti, preghiere, vite che quella lingua ha nominato per secoli. “L’Isola” nasce quindi dall’esigenza di raccontare un luogo e una comunità sull’orlo della scomparsa. Abbiamo mappato per immagini l’intera isola e registrato i suoni e i racconti delle ultime persone che la abitano. L’installazione presente a Reggio Emilia è costruita come un grande racconto orale a cui lo spettatore è invitato ad abbandonarsi camminando tra le diverse stanze sonore. Il libro “L’Isola” invece è una sorta di atlante composto dalla mappatura fotografica, da decine di storie e miti dell’isola e infine da una sezione accademica curata da Patrick Heinrich che riunisce gli scritti dei principali studiosi (storici, linguisti e antropologi) ad aver dedicato la propria ricerca a Yonaguni.
Nessun commento:
Posta un commento