martedì 17 novembre 2020

Interview with Stefan Milosavljevic



Stefan Milosavljevic, classe 1992, è un artista serbo che vive e lavora in Italia la cui ricerca si sofferma su ciò che non è visibile e lineare, spesso ricordi legati alla sua storia attraverso l’utilizzo di diversi media espressivi. A partire da piccoli disegni come Interrupted Rainbow 7fino a sculture e installazioni come Ah, 6, 7 o Daddy’s Rose. Di seguito l’intervista con Stefan.

Chi è Stefan Milosavljevic e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Nasco in un piccolo paesino al centro della Serbia, a qualche centinaio di chilometri da qualunque cosa assomigli a un edificio alto, centro commerciale o cinema. Nel 2004 all’età di dodici anni mi sono trasferito in Italia dove è iniziato il mio vero e proprio percorso artistico sulla scia di un impeccabile cliché : liceo artistico e successivamente Accademia di Belle Arti di Venezia + IUAV. Potessi tornare indietro farei esattamente le stesse scelte ma vorrei avere un altro me da indirizzare altrove, distante. 

La tua ricerca è contraddistinta dalle relazioni i che intercorrono tra l’essere umano e gli elementi che caratterizzano la sua esperienza. Mi parli di cosa la caratterizza e quali sono i temi su cui ti soffermi? 
Mi interessa soffermarmi e rivelare ciò che apparentemente non è visibile o lineare. Dare ad un’esperienza, una situazione o a qualcosa di invisibile una forma, un carattere. Trattare tutto ciò che ci circonda come un’entità viva, che ha dei propri ricordi. Utilizzo molto spesso sostanze chimiche, la memoria, attività ambigue, sovrapposizione di linguaggi, connessioni e relazioni forzate al fine di inserirmi nel rapporto che intercorre tra le persone, oggetti o situazioni. Mi interessa come questi elementi creino nuovi gruppi, delle sotto-società, comunità e sistemi aventi in comune la caratteristica di essere stati abbandonati, rifiutati o scartati mentre alla loro origine gli stessi sono stati desiderati follemente, commissionati e protetti. 

EVEN THE WALLS KNOW YOUR LIES è un lavoro autobiografico, mi racconti qual'è il tuo legame con quest'opera? 
Ho voluto ricreare la mia sala da pranzo, quella che per molto tempo era il nido della mia famiglia. Pochi metri quadri nei quali succedeva tutto e dentro cui muri rimaneva tutto. All’età di sette anni, nel non così lontano 1999, ci furono dei bombardamenti e a noi bambini che vedevamo delle palle di fuoco nel cielo veniva detto che si trattava di semplici fuochi d’artificio. Una bugia a fin di bene ma con le gambe cortissime. Ci rendemmo conto tutti, compresi i più piccoli che, ciò che ci stava succedendo non era il risultato di alcun festeggiamento, bensì eravamo in guerra. Crepe sui muri e finestre perennemente vibranti, vedemmo tramite immagini in tv che il paesaggio di edifici alti, torri e cinema di cui ti parlavo sopra era completamente sparito. Un cumulo piatto di niente. Ho voluto tramite questo lavoro sottolineare l’esistenza di radici, di basi anche se tutti i muri erano oramai diventati polvere. 

Fra i tuoi lavori mi hanno colpito Ah #1, #2, #4, #5, come nasce l'opera e cosa la caratterizza? 
Si tratta di pellicce sintetiche che sono state commissionate da un’azienda di moda e che poi sono state rifiutate perché non erano più in linea con le tendenze del momento. Io le ho inglobate in scatole di plexiglass lasciando che generassero il dubbio sulla loro natura, sul loro peso, sulla forma e sulla qualità, risultando nuovamente di interesse. E’ un lavoro che ha a che fare con il tempo e il movimento e con l’interpretazione di questi ultimi. Il tempo delle persone, mode e storie dove l’utilità si incontra con la bellezza in un dialogo costante con la natura. Ho realizzato questa serie per l’omonima mostra Ah, nella Galleria Daniele Agostini di Lugano, e il processo che mi ha condotti fino a qui sta alla base del mio fare : una costante e spesso estenuante ricerca di elementi trascurati che hanno delle caratteristiche o storie comuni. Credo che in qualche modo si possa dispiegare l’evoluzione umana mediante gli oggetti perché credo che essi assorbano tutto di noi quando siamo soli o senza la possibilità di un confronto. 

Vita su Tralfamadore a The Flat è la tua ultima mostra; che opere troviamo esposte e qual'è il tema indagato?
 Recita cosi il comunicato: Tralfamadore è il nome del pianeta immaginato dallo scrittore di science-fiction Kurt Vonnegut e vastamente descritto in molti dei suoi romanzi, tra i quali il più acclamato è “Mattatoio n. 5”. Distante dalla terra miliardi di anni luce e munito di un’atmosfera letale per l'uomo, il corpo celeste è abitato da creature aliene che credono in una concezione circolare del tempo: cioè passato, presente e futuro esistono contemporaneamente. I Tralfamadoriani quindi hanno la possibilità di sperimentare la realtà in quattro dimensioni e sono in grado di vedere lungo la linea temporale dell'Universo. Nella teoria della relatività, la quarta dimensione è riferita al tempo, componente che costituisce lo spazio-tempo quadridimensionale unificato in cui occorrono ed esistono tutti gli eventi del nostro universo. Si tratta di una mostra collettiva di cui faccio parte con due lavori: la palla di marmo con la biglia o Mundos perdidos que se accarician suavemente e il disegno realizzato con pennarelli e adrenalina o What about the beauty when you’re running from the death?. Entrambi i lavori affrontano le tematiche della morte. La palla di marmo è un elemento di recupero il cui proprietario è deceduto mentre la biglia blu sottostante è uno dei pochi oggetti che mi sono portato quando mi sono trasferito in Italia. Il passaggio da un paese all’altro ha segnato anche un cambiamento radicale nella mia vita, come una rinascita dopo la morte. I due elementi dialogano così su un piano metafisico tra certezza e possibilità. Nel disegno invece viene rappresentata un’immagine che sfugge lateralmente ai nostri occhi mentre siamo impegnati a correre, a scappare. Questo lavoro è strettamente legato alle dinamiche di predazione in natura e di come queste siano poi alla base dei rapporti tra esseri umani in società. Da qui la domanda su ciò che consideriamo bello: esso rimane o svanisce una volta che i nostri occhi sono impegnati a cercare la strada della salvezza?

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