sabato 16 maggio 2020

Interview with Driant Zeneli

Driant Zeneli, classe 1983, è artista albanese che lavora fra Tirana e Milano. La sua ricerca artistica è contraddistinta dall'idea di fallimento, utopia e sogno come elementi che aprono alternative possibili. Nel 2019 e nel 2011 ha rappresentato il padiglione albanese alla Biennale d'Arte di Venezia. Di seguito l'intervista con Driant.


Chi è Driant Zeneli e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Avevo 13 anni quando la mia famiglia mi propose di frequentare lo studio di un noto scultore nella mia città natale: Scutari. Il maestro scultore mi chiedeva di disegnare perfettamente la forma di una sfera bianca di gesso, disegnando a matita le ombre proiettate su di essa. Mi spiegava addirittura come si deve temperare una matita e mi faceva vedere i suoi disegni e sculture. Dunque, ricordo bene l’ansia che avevo quando entravo in quello studio enorme di scultura chiedendomi se ce l’avrei fatta un giorno a essere come lui. Per diverse ore e giorni disegnavo la sfera cancellando spesso quello che facevo per cercare di arrivare a disegnare precisamente le ombre proiettate sulla sfera. Spesso questo tentativo era un continuo fallimento. Dopo anni, capii che il Maestro non mi aveva raccontato un importante elemento, la quarta dimensione, il tempo, che fa cambiare tutto, anche le ombre proiettate sulla sfera bianca di gesso. In fondo, come diceva Samuel Beckett, fare l’artista è cercare il fallimento come nessun altro osa farlo. Attirato sempre dal fenomeno della caduta come fenomeno fisico e socio politico, mi chiedevo quando ero studente perché nelle lezioni storia d’arte non ci raccontassero mai di tanti artisti che sono ‘falliti’? Nel 2007 chiedo al professore di storia dell’arte all’Accademia delle Belle Arti di Macerata, dove studiavo, di tenere una lezione diversa da quelle a cui eravamo abituati. Una lezione a sorpresa ad alluni d’arte contemporanea sugli artisti ‘falliti’ e sul concetto del fallimento. Il professore all’inizio si mostrò entusiasta e mi disse di si, ma dopo un po’ di mesi decise di non farla più, facendo fallire il progetto. Per due anni l’ho raccontato come un progetto sul fallimento, fallito. Nel 2009 ho partecipato ad un laboratorio con Cesare Pietroiusti e gli ho raccontato il progetto. Mi ricordo il momento in cui Cesare mi disse: “se vuoi tengo io una lezione ai miei studenti allo IUAV a Venezia?”, così realizzai la prima lezione Bankrupt artists lesson n°… un’opera che continua ancora oggi a essere performata in diverse luoghi fino al Pompidou.

La tua rierca è caratterizzata dall'utopia, i tuoi lavori approfondiscono e si soffermano su temi che ci riguardano, dandovi però un taglio fantascientifico. Cosa ti spinge e come scegli i temi su cui lavori?
Penso che la fantascienza abbia une importante potere narrativo, dove politica, economia e società si mischiano con la fantasia. Riguardo i film speso mi sento più vicino al Realismo Magico che alla pura fantascienza, mi piace partire dal basso guardando in alto, tenendo sempre un piede o una mano legata alla gravità della terra. Di solito non scelgo mai un tema, mi butto su una cosa poi la curiosità mi porta a scoprire altre cose, così nasce una mia opera. Mi incuriosisco spesso cercando il tentativo di spostare i limiti, cadendo casualmente in luoghi sconosciuti, scoprendo così nuovi rapporti e dimensioni creati dal nostro legame con lo spazio reale e virtuale che occupiamo quotidianamente. Per questo considero l’utopia come necessità per continuare a credere in quello che facciamo.

A Tirana, per la Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo, hai lavorato sul tema della casa, come nasce l'idea e come si colloca nel progetto della Biennale?
La direzione della Mediterranea 18 Young Artists Biennale è stata una sfida importante, non avendo mai avuto ambizioni curatoriali, mi sono messo in un ruolo direzionale pieno di responsabilità. Questa avventura l’ho condivisa con amici professionisti come Jonida Turani, Maja Ciric, Ema Andrea, ALA Group / Maria Rosa Sossai e Alban Nimani&Rubin Beqo / Tulla Center e Eroll Bilibani, provenienti dal Kosovo, dalla Serbia, dall’Albania e dall’Italia, tutti insieme abbiamo lavorato per un anno per creare insieme un evento importante che per la prima volta si svolgeva tra Tirana e Durazzo, dove c’erano circa 300 artisti partecipanti e tanti altri eventi satelliti in città. La biennale fu inaugurata con un viaggio in nave con tutti gli artisti insieme da Bari verso Durazzo.
Il tema è nato spontaneamente partendo da una colonna importante della nostra società ‘La casa’ partendo da alcuni elementi da cui è composta la casa: Storia + Conflitto + Sogno + Fallimento = CASA. Quanto tempo ci vorrebbe per elencare gli elementi che costituiscono ciò che chiamiamo "casa"? E quanto tempo ci vorrebbe per individuare quelli che possono distruggerla? La storia, un archivio contenente quantità inimmaginabili di storie individuali, di cui rimane memoria o sono dimenticate. Il conflitto, per riflettere sul modo in cui condividiamo le nostre case. Il sogno, inteso come progetto di una casa, come diritto umano fondamentale di essere liberi di scegliere e desiderare la propria casa, reale o immaginaria che sia. Il fallimento, come resistenza interiore ai vari tentativi che mutano lungo il percorso di ricerca della casa dei sogni.

Il progetto When Dreams Become Necessity raccoglie tre sogni che cerchi di realizzare, in cosa consistono? come sono suddivisi i tre video? qual'è il loro messaggio?
La trilogia When Dreams Become Necessity nasce proprio dalla necessità di fare qualcosa che può sembrare inutile però infondo abbiamo bisogno anche di tentare quello che nel quotidiano può sembrare inutile, lasciando intendere che l’inevitabile fallimento non sia che la porta di accesso per possibili alternative. La trilogia e stata realizzata tra il 2009 e il 2014 ed è composta da tre video di breve durata che documentano altrettante azioni performative svolte da me. Nel primo video, The Dream of Icarus Was to Make a Cloud (2009), cerco di creare una nuvola volando in parapendio; nel secondo, Some Say the Moon Is Easy to Touch… (2011), mi lancio in un bungee jump nel tentativo di toccare la luna, nella notte in cui il satellite si trova alla minima distanza dalla Terra; nell’ultimo, Don’t Look at the Sun while You’re Expecting to Cross it (2014), decido di attraversare il sole viaggiando su una teleferica dopo che la cometa Lovejoy ha attraversato l’atmosfera del sole, uscendone intatta. Nei tre video, le azioni performative si concludono in breve tempo, svelandone l’illusione di fondo. Gran parte delle immagini è dedicata alla fase di preparazione, caricando il tempo che precede l’azione di tensione e di attesa, e ponendo l’accento sull'impegno e la forza di volontà necessarie per la realizzazione di imprese considerate impossibili.

Mi racconti il progetto Maybe the cosmos is not so extraordinary presentato alla biennale di Venezia 2019 per il Padoglione dell'Albania?
In Maybe the Cosmos is not so Extraordinary, (2019) un gruppo di adolescenti interpreta gli attori principali della storia. Cinque piccoli astronauti trovano una sfera cosmica abbandonata in una fabbrica e il loro obbiettivo, aiutatati da un piccolo drone, è portare la sfera dentro il corpo della montagna. Il film è ambientato nella loro città natale, Bulqize, una città nel nord-est dell'Albania, dove dal 1918 è stato estratto il minerale di cromo. Il cromo rappresenta una risorsa chiave per lo sviluppo industriale dell'Albania e si scontra con conflitti economici e politici nel Sud del mondo. Con questo progetto ho voluto creare una tensione tra una realtà sotterranea oppressiva e uno spazio utopico di possibilità e liberazione. Il titolo nasce leggendo il libro di fantascienza del 1983, Sulla via per l’Epsilon Eridani. Dell’ autore Albanese Arion Hysenbegas. Invece, una parte importante la prende anche l’aspetto dell’installazione dell’opera. Con la curatrice Alicia Knock abbiamo pensato fosse più interessante realizzare una video-scultura e non un semplice film, partendo dal modo in cui sono sospesi i due schermi. I cavi usati nell'installazione sono gli stessi in cui viaggia il cromo, che nella fabbrica sono molto più piccoli: in mostra sono esagerati, fuori scala. È un’opera pensata non per essere solo fotografata, ma vissuta. Oggi moltissimi lavori vengono realizzati solo per essere instagrammati. È un’altra esperienza quando ti immergi nel suono e hai la sensazione dei piedi che stanno per sprofondare quando le persone si muovono sul pavimento. È come la perdita di gravità, una cosa invisibile che puoi solo percepire fisicamente.

Note: L’opera Maybe the Cosmos is not so Extraordinary e l’ultimo capitolo della trilogia Beneath a surface there's just another surface, dove tutte le tre storie girano nei luoghi dove il minerale del chrome viene estrato e rielaborato, tutti i personaggi (non attori) delle opere come nella prima It would not be possible to leave the Planet Earth unless Gravity existed (2017) e la seconda And then I found some Meteorites in my Room (2018) sono interpreti della loro storia, interpretano la loro vita tramite la fantasia nei luoghi della loro quotidianità.

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