martedì 21 maggio 2019

Interview with Michele Parisi



Michele Parisi, classe 1983, è pittore italiano il cui lavoro è caratterizzato dalla storia, dalla memoria memoria che diventano pennellate polverose all'interno delle sue tele mescolandole alla fotografia. I lavori sono un omaggio a luoghi simbolo della nostra cultura dandovi un atemporalità intrinseca. Di seguito trovate l'intervista con Michele in relazione ai suoi lavori.


Chi è Michele Parisi e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
In diverse occasioni mi è stato chiesto di descrivere il percorso che mi ha portato a diventare artista. Sono nato e cresciuto in mezzo all’arte: le sculture di mio padre e le sue pitture alle pareti hanno accompagnato la mia infanzia; di quei pochi libri d’arte che c’erano in casa ne ho imparato a memoria tutte le figure. Ricordo ancora le domeniche pomeriggio seduti fianco a fianco a disegnare imparando le tecniche, le prospettive, che le cose sono fatte di luci e di ombre e come disegnarle. Imparare a disegnare mi ha aiutato ad esprimermi, a dare vita alle mie idee; il disegno mi ha permesso di imparare ad osservare e a cercare quello che sta dietro ad ogni cosa. Da insegnante, do molta importanza al disegno… Gli studi intrapresi sono stati possiamo dire “ovvi”: la scuola d’arte e successivamente l’Accademia di Belle Arti. E’ stato con la scelta di iscrivermi in una Accademia il vero momento in cui ho deciso di essere artista, di provarci per lo meno. Sono stati anni formativi ovviamente, fatti di lavoro, studio e dedizione, ma anche di molti sacrifici. Credo di non aver mai trascorso da allora un giorno senza lavorare: Nulla dies sine linea come diceva Plinio. Con la fine dell’Accademia sentivo come incerto il mio lavoro, nonostante qualche mostra lo avesse “confermato” se così si può dire: ho dovuto lavorare un decennio per raggiungere una mia poetica: la distanza era la metà se posso citare il titolo di un ciclo dei miei ultimi lavori. Più che diventare si potrebbe dire che ci si trasforma: credo che l’artista possa essere questo. Invece, per rispondere alla prima domanda, se dovessi descrivermi, direi che Michele Parisi è uno che una volta ha visto una persona che assomigliava vagamente ad un’amica e per questo l’ha salutata.

La tua ricerca estetica è caratterizzata da un tocco oscuro, un velo che avvolge il luogo raffigurato. Cosa la caratterizza e come nascono i lavori?
Il mio lavoro parte sempre dalla scrittura, che sia un appunto di quello che vedo o percepisco, parte da un’idea, da un passaggio di un racconto, una poesia o un suono. Scrivere è lo stato embrionale della mia pittura. Scrivere mi aiuta a pensare e mi aiuta a mettere dentro molte cose. La scrittura accompagna sempre uno spostamento, un luogo, mentale o fisico che sia. Successivamente è il disegno che definisce la forma delle parole e la realizzazione delle immagini fotografiche che realizzo solitamente su lastra in vetro ed elaboro nella mia camera oscura e che saranno le matrici della mia pittura. Infatti la mia pittura si svolge in una prima fase in camera oscura: vi è la preparazione dei supporti con la gelatina fotosensibile e lo sviluppo delle lastre. Le lastre mi permettono di sviluppare una traccia dell’immagine mediante lente esposizioni di luce sulla tela che poi andrò a dipingere e reinventare ad olio. L’immagine di partenza è così un simulacro, una lontana memoria e la pittura la sua idealizzazione. E’ come quando si ricorda un episodio lontano nel tempo e la mente tende a ricordare solo alcuni aspetti, idealizzandoli, ed è così che anche un’invenzione può diventare fatto reale. Tutta questa manipolazione avviene manualmente al buio: lo sviluppo della traccia a pennello con acido o l’invenzione con la luce, così come l’invenzione con la pittura ad olio, che eseguo successivamente. La pittura ripercorre ogni singolo centimetro della tela, alcuni dettagli li elimino, altri li evidenzio altri ancora li reinvento. Il processo è molto lungo e laborioso, non ascolto musica o altro mentre lavoro ma solo i miei pensieri: rappresentare significa anzitutto sostituire qualcosa di presente a qualcosa di assente, come si legge nel Dictionnaire di Furetière la definizione di immagine. Da qualche anno i miei interessi letterari accompagnano il sentire e da alcuni anni la mia ricerca estetica è caratterizzata dall’idea di sublime; personalmente ritengo che la pittura è un malessere che restituisce bellezza, è forse questo il tocco oscuro, il silenzio che ne permette la riflessione, un raccoglimento personale che si prova o desidero che si prova di fronte al mio lavoro: insomma i ricordi sostituiscono gli occhi.



I tuoi soggetti sono luoghi riconoscibili, soggetti comuni, raffigurazioni delle realtà che prendono vita nelle tue tele. Come scegli il soggetto? c'è un legame con essi? 
In questi ultimi anni ho deciso di lavorare rimanendo più legato alla figurazione; in una fase precedente il lavoro mi aveva portato a raggiungere degli esiti totalmente astratti arrivando a conseguire un mio alfabeto stilistico, del tutto personale; ma credo che la figurazione, un ritorno ad essa, mi abbia permesso di stabilire un contatto maggiore con chi guarda, di stabilire un rapporto più intimo. Ricordo ancora che l’impressione avuta nel dipingere nuovamente una composizione iconica è stata come quella di aver levato un muro: questione di alfabeti forse, una questione di nervi oppure semplicemente una questione di trovare più appagante la figurazione. Penso che la pittura si deve prendere cura degli occhi di chi guarda: è ancora in grado di ragionare sulla molteplicità delle immagini ed ha ancora molto da intraprendere e restituire. I miei soggetti sono geografie che prendono forma da un’idea e dalla scrittura. Negli ultimi anni ho scelto di raffigurare i luoghi dove nascono le idee: li ho chiamati così. Sono luoghi dove ipoteticamente è nato il pensiero, luoghi in cui il pensiero è stato raccolto e conservato. Sono luoghi di forte impatto emotivo, carichi di memoria, geografie dalle forze centripete di una coscienza collettiva dove l’uomo come artista ha lavorato, scritto, dipinto, fatto teorie. Questi lavori sono spinti anche dalla paura della loro perdita, dalla perdita dei saperi, dalla loro cancellazione come è accaduto ad esempio in Siria o nella distruzione dei Buddha di Bamiyan. Il viaggio è parte del lavoro, o della tecnica del lavoro, una sorta di nuovo Grand Tour: ripercorrendone le idee ho scelto così i soggetti delle mie opere. E’ così che nasce la serie Scriptorium dove sono raffigurati chiostri antichi, antiche biblioteche, aule universitarie, oppure E cercare niente era quello che volevo, una serie dedicata ai giardini all’italiana; La distanza era la mèta, una serie dedicata appunto ai Grand Tour.

Irae ad esempio, è un ciclo di lavori dedicati alla distruzione dei siti archeologici in Siria da parte dell’Isis dove le immagini, filtrate dai media, rappresentano l’ultima immagine prima della loro scomparsa e della visione attuale. Questi sono solo alcuni dei cicli pittorici che ho intrapreso in questi ultimi anni. Ogni luogo, salvo la Siria, è stato visitato e percorso, è stato disegnato e fotografato prima di essere portato sulla tela: queste azioni mi permettono di dare forma alle mie idee e di restituirle infine con la pittura. E’ nei titoli che si può evincere l’idea o l’azione che si trova oltre la superficie: i titoli sono solitamente quello che rimane dagli scritti di partenza e permettono di esperire al meglio l’opera. Anche il corpo è uno dei miei soggetti prediletti e che amo dipingere. Anche per questi lavori il principio è la scrittura e la lettura. Sono nati così i cicli intitolati Giuditta, Salomè oppure Brevi gravità dove dal titolo si può evincere l’azione delle modelle in posa durante le lente esposizioni di posa, mentre nei primi due cicli l’interesse per le narrazioni bibliche era rivolto all’idea di eros e thanatos dei soggetti letterari e non l’azione che siamo soliti conoscere.

Fra i tuoi lavori mi ha colpito il ciclo oblio; come nasce e cosa rappresenta questa parte della tua produzione? 
Oblio è un ciclo di lavori eseguiti nel il 2016 ed esposti nella mostra Oblio presso la Paolo Maria Deanesi Gallery di Trento, mia galleria di riferimento, nel marzo 2017. Oblio è dimenticanza, abbandono del pensiero, è il luogo dove le cose cessano di essere: è lo studio e la conoscenza a preservarci dall’oblio anche dopo l’abbandono e la morte. Da questi presupposti ho voluto raccogliere e raccordare le opere dipinte tra il 2015 e 2016, opere partite dal ciclo Irae e giunte ad altre soluzioni come la serie Giuditta, Arc de Trionphe, o Quamdiu stabit Colyseus. L’Oblio oltre la perdita della memoria a livello generale è rivolto allo sguardo contemporaneo, sempre più frammentario ed episodico. Irae è la preservazione della memoria e dall’Oblio dovuto alla scomparsa dei siti archeologici distrutti e infatti le immagini rappresentano l’ultima immagine prima della loro scomparsa; Giuditta invece sono una serie di piccole opere che raffigurano delle mani, mani contemporanee che si sovrappongono idealmente al racconto biblico di Giuditta e Oloferne, un tema frequentemente affrontato nella storia dell’arte ma ho voluto porre l’attenzione su un altro episodio del racconto: non la decapitazione che siamo soliti conoscere, ma il corteggiamento di Giuditta per ammaliare Oloferne prima di essere ucciso. Anche in questo caso l’idea è stata quella di riproporre un tema antico, rimettendolo in luce ponendolo sotto un altro aspetto per preservarlo dalla polvere. Oppure, per concludere, Quamdiu stabit Colyseus è una visione aerea di Roma: ragionando sull’immagine, apparentemente una visione da cartolina per il turista distratto, ho visto l’immagine come una visione fatta di molteplici stratificazioni; stratificazioni avvenute nei secoli che uno sguardo intorbidito fatica a leggere o non si preoccupa di vedere. E’ cosi ogni volta che mi capita di vedere un’immagine turistica di una qualsiasi città: immagine che mostra la superficie, immagine che vuole creare un’attrazione ma che ha perso la propria fisicità, la propria storia, dimenticandosene. Tutte immagini cadute in un lento Oblio che lo sguardo contemporaneo ha perso e non sa più leggere e questo devo dire che mi fa davvero paura. Perdere memoria è un po come perdere la personalità. Sia in quest’opera che in Arc de Trionphe - che raffigura una veduta aerea di Parigi - ho voluto dipingere non un paesaggio ma le stratificazioni secolari che ci sono volute per giungere a uno stato attuale. Sono dunque sovrapposizioni ipotetiche di molte immagini: ogni luogo, oltre la tela cela storie e racconti perduti nel tempo, il nostro compito quello di preservarli. Sono città frammentarie che lentamente si stanno sgretolando cedendo all’Oblio. Ponendo come titolo un vecchio detto latino, nel caso di Roma, ho voluto mettere in risalto un concetto di durata: fino a che rimarrà in piedi il Colosseo esisterà Roma, ma fino a che rimarrà al suo posto lo sguardo contemporaneo fatica ad accorgersene. Così è accaduto con i siti archeologici della Siria e recentemente con Notre Dame a Parigi: con la sua scomparsa la guglia è riemersa dall’oblio per poi lentamente ricaderci.

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