domenica 24 marzo 2019

Interview with Francesco Zanatta



Francesco Zanatta è pittore italiano, classe 1989, che vive e lavora a Venezia. La sua ricerca artistica è contraddistinta dal tratto e da colore da cui prendono forma le sue narrazioni dal sapore confuso-evanescente. Un itinerario narrativo che apre a differenti letture mentre ci si avvicina ai quadri e si colgono numerosi dettagli e situazioni attraverso le pennellate. Di seguito l'intervista a Francesco riguardo i suoi ultimi progetti.


Chi è Francesco Zanatta e qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Vengo dalla campagna veneta e sono nato in una famiglia di origini contadine. L’educazione ricevuta dai miei nonni ha lasciato in me un segno indelebile. Da piccolo andavo nei campi col mio nonno paterno, o a volte lo aiutavo nella vendemmia. Lui suonava la tromba e cantava nel coro del paese. Così già alle elementari ho iniziato a prendere lezioni di musica. Forse l’incontro più sconvolgente con l’Arte sono stati gli ascolti musicali che facevo da bambino: Čajkovskij, le suite di Bach per violoncello e Mozart.
La pittura è arrivata molto dopo. Da adolescente disegnavo di frequente, ma volevo fare il violoncellista: studiavo al conservatorio e suonavo in un’orchestra. Dopo il liceo, a Venezia ho incontrato il mio prof di pittura, Carlo Di Raco, e un atelier dove ho potuto concentrarmi con più libertà nella costruzione di una ricerca artistica personale. Il tempo speso nell’atelier F e il lavoro a fianco ad altri giovani artisti mi hanno condotto fin qui.

Il tuo processo creativo è caratterizzato da realtà e immaginazione, una fusione non definita che apre ad infinite narrazioni. Mi puoi spiegare in cosa consiste? 
Uso il disegno e la pittura per comprendere e rivoluzionare di continuo il mio legame col reale. Il disegno non è mai pura immaginazione o pura aderenza alla realtà; è uno scambio di forze, come un’equazione da bilanciare tra me e ciò che mi circonda. Lavoro sugli stimoli che animano il processo del disegno quotidiano, sul momento di fragilità che intercorre tra il turbinio di osservazioni che il mio sguardo assimila in ogni istante e la matita che si posa sul foglio per scegliere e quindi reinventare tali stimoli. In effetti, gli attimi sono importanti mentre lavoro: questo scambio di cui parlo è ritmico e per questo devo molto alla mia formazione musicale. Sono momenti fragili perché la mente converge le sue energie in modo da intravedere molteplici possibilità e la mano deve scegliere quella giusta. La mente deve “fidarsi” dell’azione profetica della mano.

All'interno dei tuoi quadri gli oggetti prendono una nuova forma/funzione, diventano il mezzo da cui nasce la narrazione. Come li scegli e come trai spunto da essi?
Ciò che rappresento fa parte di un repertorio di scoperte principalmente avvenute sulla carta o sulla tela. Ad esempio, l’insistenza su paesaggi residuali, detriti e architetture logorate è un aspetto poetico sviluppato in parte grazie ad una lenta e progressiva scoperta di superfici pittoriche che richiamavano in me quell'immaginario.
Questo processo mi ha portato nel 2016 a realizzare un progetto presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, dove mi era stato assegnato uno studio per un anno. Ho lavorato sulla relazione tra cammino e invenzione pittorica. O meglio su come la pittura influenzi la capacità di osservazione. Ho scelto di percorrere a piedi dei luoghi precisi della laguna veneziana e della campagna veneta per approfondire con essi un legame più diretto e radicato. Nei miei itinerari mi fermavo a disegnare e a fotografare, così queste tracce, unite al ricordo vivido e fisico dell’esperienza, sono state la materia prima su cui ho costruito un corpo di quadri.
Ad esempio, nel novembre 2016 ho partecipato al Premio Stonefly e in quei giorni cadeva il 50^ anniversario dell’”Acquagranda”, l’acqua alta eccezionale che nel 1966 quasi spazzò via Venezia. Ho portato il quadro In Defense of the Wind, un lavoro di 250 x 550 cm che si confronta con Venezia e l’acqua alta del ’66. Il materiale di partenza sono state foto d’archivio e foto scattate di persona durante un cammino che ho svolto al Lido e ai Murazzi, dove la mareggiata fu disastrosa e quasi penetrò la città.
Il lavoro mi ha reso consapevole, forse per la prima volta, della forza che ha la pittura nel costruire veri e propri mondi. Con la sua mole questa grande immagine risulta quasi come un pianeta o un grande ecosistema misterioso i cui toni acidi accrescono la drammaticità e i movimenti sinuosi delle superfici conducono lo sguardo in un viaggio onirico. Ogni suo elemento narrativo, pur avendo una precisa connotazione, si apre a molteplici chiavi di lettura. Per esempio, nel mio itinerario ho fotografato moltissimi tipi di alghe, rami secchi, arbusti e canneti che poi ho ridisegnato e fuso insieme per costruire la vegetazione nella parte centrale; oppure ho studiato e poi dipinto alcune asperità trovate in tronchi abbandonati nelle spiagge. Ne ricordo uno in particolare: era stato eroso dalla salsedine e, uno dei suoi lati, carbonizzato dal fuoco di un falò.




Mi puoi raccontare cosa raffigura e come nasce l'opera “If you have a knot you cannot undo...”, esposta al forte di Monte Ricco nella mostra Brain-tooling.
Il titolo rielabora il verso di una poesia presente in Aurora di Kim Stanley Robinson.

There’s no world, my friend, no
New seas, no other planets, nowhere to flee –
You’re tied in a knot you can never undo
When you realize Earth is a starship too


Il libro parla del viaggio interstellare di un gruppo di coloni e delle tragiche vicende legate alla ricerca di un nuovo pianeta da civilizzare. L’idea della Terra vista come una nave spaziale esprime la teoria ecologista secondo cui vi è un assenza di “altrove”: il mondo è un sistema chiuso e delimitato da cui non si può scappare.
Nei suoi versi, Robinson reinterpreta a sua volta la poesia La città di K. Kavafis, dove di nuovo con tono drammatico si allude all’idea di un luogo da cui non si può fuggire.

Dei lunghi anni, se mi guardo intorno,
della mia vita consumata qui, non vedo
che nere macerie e solitudine e rovina.
Non troverai altro luogo, non troverai altro mare.
La città ti verrà dietro.


If you have a knot you can not undo…, è un’opera prodotta per la mostra Braintooling (a cura di Gianluca D’Incà Levis, Petra Cason e Riccardo Caldura) che condensa l’esperienza di un mese di residenza all’interno del progetto Dolomiti Contemporanee. Lì ho lavorato presso Batteria Castello, a Pieve di Cadore, una fortificazione militare medievale in stato di abbandono in cui per più di 30 anni ha vissuto Romano Tabacchi.
Romano era un artista outsider, artigiano e libero pensatore venuto a mancare qualche anno fa, che fece di quel luogo la sua officina e la sua casa. Batteria era per lui un rifugio dalla comunità locale che lo reputava un pazzo, ma anche il luogo che lui aveva deciso di proteggere dal decadimento fisico e della memoria culturale. Ho dunque lavorato sulle tracce che Romano aveva lasciato: detriti, attrezzi, oggetti della sua quotidianità, artefatti di difficile descrizione, scritte e piccoli testi sparsi ovunque su fogli di carta ed incisi sui muri. Mi ha affascinato la sua figura di protettore di un luogo destinato all'oblio. Il suo sforzo era quello di inserirsi nel ciclo vitale della Batteria per ridargli una luce forte, una nuova linfa.
Il mio intervento ha avuto lo scopo di penetrare questa sorta di ecosistema sospeso per rappresentarlo. La materia pittorica stessa parla della relazione instaurata con il luogo: fusione di interno ed esterno, prospettive disorientanti che si appiattiscono, superfici erose, oggetti incomprensibili o in liquefazione; una sorta di stanza-paesaggio antichissima, che può far ricordare un tempo in cui la Terra era in formazione, una distesa di vulcani e geyser multicolore. C’è una forte attrazione, un legame intimo che non puoi sciogliere. Ma anche una repulsione; e da qui la certezza che non puoi scappare, non esiste un altrove.

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