lunedì 19 novembre 2018

Interview with Dario Picariello


Dario Picariello, classe 1991, è un giovane artisti italiano che si avvale di differenti mezzi espressivi per dare vita ai suoi progetti caratterizzati da un dialogo fra il luogo e il suo lavoro; una serie di scatti narrativi dove corpi e oggetti diventano i mezzi comunicativi. A Fuoco Continio è stata la sua ultima personale al TRA, dove è stato sviluppato un progetto ad hoc partendo dalla Fornace Guerra Gregorj; di seguito vi propongo l'intervista con Dario.


Chi è Dario Picariello e qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Cominciamo con una bella domanda. Sono nato ad Avellino nel 1991, in una casa in campagna, insieme ai miei genitori e nonni. Con questi ultimi ho passato l’infanzia, avendo la fortuna di poter crescere ascoltando i loro racconti “leggendari” di fronte al camino. Scelsi da subito di fare la scuola d’arte, ceramica per la precisione, e da lì in poi credo che il cammino sia stato più che mai lineare. Liceo, poi Accademia, ho sempre studiato arte, ma credo che sia stata proprio la frequenza in Accademia a far sì che mi ponessi le prime domande sul mio lavoro. Certo, se il primo giorno di lezione trovi un insegnante che lancia delle caramelle in cima ad una scala per spiegarti cos’è l’arte qualche domanda te la fai, o scappi. Io sono rimasto.

Il tuo lavoro dà vita ad immaginari e raffigurazioni, un collegamento con il luogo, gli oggetti in esso e la presenza fisica. Cosa caratterizza la tua ricerca?
Il racconto, declinato in tutte le forme. Mi sono sempre preoccupato, prima di realizzare un lavoro, di essere preparato rispetto all'argomento in oggetto, in ogni suo aspetto – scientifico, folkloristico, analitico – per poter essere pronto ad affrontarlo consapevolmente e con rispetto. Avere un atteggiamento metodico rispetto alle cose che esamino, ma anche onnivoro, mi permette inevitabilmente di dover praticare uno scarto, e da lì genero le mie raffigurazioni. Disegno molto prima di realizzare un lavoro, anche se poi il risultato finale è una serie di fotografie. Mi aiuta ad avere una prima percezione di quello che sarà e ad avere un’idea d’insieme. Dei luoghi mi interessano non solo le storie e gli oggetti, ma la possibilità di farli miei attraverso la presenza fisica. Il corpo diventa un veicolo fondamentale e, nella relazione con gli oggetti con cui si fonde, li carica di un ulteriore significato. Trovo necessaria questa pratica d’ibridazione, non solo perché genera la rottura di una percezione pragmatica, ma perché mi permette di costruire un immaginario, partendo dal racconto. Nei miei ultimi lavori – come quelli realizzati tra Torino e Cosenza – è la materia stessa della fotografia, la carta, a prendere una forma oggettuale o ad essere distrutta per ricamarci delle frasi. Il confine tra strumento fotografico e fotografia si è perso ulteriormente.


Errante è uno dei tuoi primi progetti, una serie di scatti "antropologici". Qual è l'ispirazione del progetto e come prende vita?
Errante è un progetto cominciato nel 2013 e attualmente ancora aperto. Tutto è cominciato perché volevo dar vita a quelle immagini apparentemente tanto lontane del folklore, proprie del Sud Italia. Fui folgorato dai racconti di Ernesto de Martino e dalla sua analisi “magica” e antropologica della terra da cui vengo. Ci sono delle inevitabili connessioni tra i suoi testi e quella che è la mia identità Irpina. Ho cominciato così un percorso appunto Errante, in paesi intorno casa mia entrando, abusivamente e non, in luoghi abbandonati o utilizzati da contadini come depositi pieni di attrezzi antichi. Volevo utilizzarli ribaltandone la funzione, assurgendoli a strumenti e maschere per rappresentare icone fantastiche. Vorrei realizzare un’utopica mappatura delle figure che si manifestano in quei racconti, evocandole proprio partendo da quel tessuto sociale in cui certe presenze sono ancora fortemente radicate.

A fuoco continuo è stata la tua personale al TRA curata da Stefano Volpato, mi racconti come nasce questa mostra e che opere comprendeva?
Il progetto A fuoco continuo è stato un lavoro complesso, composto da diverse fasi. Un processo durato quasi un anno, culminato con una grande installazione realizzata appositamente per gli spazi di TRA. Credo che sia stata una bella sfida, ed in questo la presenza di Stefano e di tutta la comunità che ha operato intorno, è stata determinante per la buona riuscita del lavoro finale. Il pretesto è stato la Fornace Guerra Gregorj di Sant’Antonino, opificio che nel secolo scorso non solo produceva laterizi, ma che grazie alle idee innovative dell’allora direttore Gregorio Gregorj, è stato un prolifico centro artistico in cui hanno operato tra gli altri anche Arturo Martini. Un luogo pieno di storia caratterizzato da grandi idee, molto lavoro e utopia, ma anche e purtroppo da un successivo declino. Tanto che oggi la fornace si presenta come una delle molte architetture industriali abbandonate disseminate sul nostro territorio. L’obiettivo di questo lavoro era attivare una comunità intorno ad un luogo particolare, riaccendendolo non solo idealmente, cercando di ricreare un comune interesse.
Sono stati realizzati tre interventi, due dei quali hanno coinvolto la presenza di gruppi di persone differenti. Un primo laboratorio all'interno della Fornace ha coinvolto una classe del liceo artistico di Treviso. Volevo realizzare un’operazione sì ideale, ma anche un’azione pratica. Con gli studenti del liceo artistico abbiamo lavorato negli spazi abbandonati, alla realizzazione collettiva di un oggetto che sarebbe stato parte del mio progetto fotografico. Il secondo invece è stato realizzato con un gruppo di persone, tra cui l’attuale proprietaria Luisa Gregorj, utile a raccontare col disegno e con l’argilla ricordi personali e storie della fornace. In ultima fase lo spazio della fornace è diventato il protagonista di una serie di fotografie in cui si è manifestata la figura dell’oscuro fornaciaio (come amava definirsi Gregorio), con rimandi alle raffigurazioni Martiniane. Utilizzando gli strumenti del set fotografico come supporto alle immagini prodotte, l’installazione finale, montata sui binari, si presentava come un’estensione della fornace stessa che prosegue fino a noi. Il risultato finale è un lavoro di fotografia installata che tenta di unire la storia di un luogo, la partecipazione di una collettività e il pensiero universale di dare valore anche alle cose inusuali, come il fallimento.

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