Andrea Grotto, classe 1989, vive e lavora a Venezia. Le opere del giovane artista spaziano fra differenti mezzi espressivi caratterizzati da due momenti distinti ma allo stesso tempo in simbiosi, il primo nella natura, mentre il secondo in studio dove l'opera prende forma. Il 17 marzo inaugura la mostra LEDA / GRECALE presso la Galleria Caterina Tognon a Venezia. Di seguito l'intervista ad Andrea.
Chi è Andrea Grotto e quando il percorso che ti ha portato a definirti artista?
Mi sono formato all'Accademia di Belle arti di Venezia nel corso di pittura del Prof Carlo Di Raco tra il 2009 e il 2014. Ho avuto la fortuna di crescere all'interno di un ambiente in cui avevo costantemente sott'occhio il lavoro e la crescita degli altri giovani artisti e quindi, alla base di tutto, il confronto costante. Con quest'ottica nel 2013 assieme ad altri tre artisti, è nato il collettivo How We dwell (make your own residence) collettivo che ha fuso insieme quattro tipologie di ricerca e differenti metodi di lavoro ma accomunati dalla voglia di indagare come il fare artistico e l'ambiente in cui avviene, interagiscano e si compenetrino.
I tuoi lavori sono ispirati alle Alpi, nel tuo processo creativo troviamo una fase che si svolge all'esterno, di scoperta e di esperienza, e una all'interno in cui le sensazioni e il tuo errare fra le montagne prende forma sulla tela attraverso l'uso del colore caratterizzato da un sapore irreale. Mi puoi parlare di come nascono i tuoi lavori e del tuo rapporto con la montagna?
Tutto nasce dal luogo in cui sono cresciuto. Sono nato a Schio (VI) e sono cresciuto riferendomi sempre alle montagne, relazionandomi con un paesaggio variegato, con un campo visivo ampio e spesso con una visione dall'alto. Il mio lavoro ha preso forma a partire da informazioni visive che catturavo durante le numerose passeggiate sull'arco alpino attorno a casa. Una volta in studio cercavo di restituire l'atto del vedere e camminare attraverso una pittura molto grafica, per livelli e per gradi, andando lentamente a ricomporre un nuovo paesaggio. I colori quindi non sono una presa dal vero ma un risultato della memoria e di ciò che la nuova immagine mi suggerisce. Un altro aspetto che ha catalizzato la mia ricerca e' stata una riflessione attorno al concetto di casa, di paesaggio interno, un ambiente a memoria la cui simbologia si aggancia ad essa grazie a degli elementi chiave. Gli oggetti.
All'interno della tua produzione troviamo una serie di installazione e sculture come obj# oppure Residency between the crystals, sviluppata durante la residenza alla BLM. Alcune in particolare nascono durante una resistenza e sono caratterizzate dal riuso, come si colloca all'interno della tua produzione questo gruppo di opere?
Sono due sviluppi di ricerca a partire sempre dal paesaggio. Residency between the crystals, è un lavoro che How we dwell ha realizzato in occasione dell'annuale Premio Stonefly walking whit art, il cui tema per l'anno 2014 fu " La Materia". Per quell'occasione, abbiamo deciso di rendere abitabile una piccola scultura della serie Houses che avevo costruito in studio pochi mesi prima utilizzandola come modellino. L'aspetto più accattivante di quel lavoro fu la ricerca dei materiali, in particolare dei tronchi d'albero che dovevano rispettare le misure della maquette per poter reggersi in piedi. Trovammo ció che ci serviva nell'isola della Certosa di Venezia che un uragano qualche anno prima aveva quasi distrutto, radendo al suolo la fitta vegetazione che la caratterizzava e che quindi si presentava a noi come un enorme emporio di tronchi accatastati. L'abitacolo infine venne costruito con il cartone e la pelle che Stonefly ci aveva fornito. Infine l'assemblaggio avvenne direttamente tra i lampadari di palazzetto Tito senza utilizzare viti o chiodi, utilizzando solo corde e spago. Gli obj# sono una serie di lavori in cui ho voluto incentrare l'attenzione sul valore proprio dell'oggetto, ricercando un equilibrio tra frammenti di altri oggetti trovati. Un po' come la serie houses, la serie obj# nasce a partire dal disegno e dalla pittura, dallo scambio tra rappresentazione e oggetto reale.
Una parte dei tuoi lavori è caratterizzata da installazioni, come Didn’t you know stones can fly? e Stube, come si collocano all'interno della tua ricerca artistica? Qual'è il rapporto fra i tuoi lavori e lo spettatore?
In entrambi i lavori sono andato alla ricerca di uno spazio reale che seppur rarefatto, consentisse l'attivazione di sensazioni tipiche del nostro impulso a "dimorare". Questi due lavori sono stati un punto di svolta importante nella mia ricerca perché hanno stimolato diversi sviluppi che hanno preso forma, nell'ultimo periodo, attraverso la pittura. Nei miei lavori, la ricerca di un clima personale, frutto di un dialogo tra lo spettatore e l'involucro dell'opera vuole stimolare la nascita di una situazione che per ognuno può essere diversa. In questi due lavori l'ho indagata attraverso due vie. Con STUBE, l'unico fruitore dello spazio ero io, che fissando tra loro i pannelli di legno, celavo alla vista dello spettatore lo spazio vuoto entro cui mi chiudevo, rabbuiando così, progressivamente il resto della stanza. Proprio come nella vera Stube, il potenziale non è visibile ma è percepito. Diversamente, l'opera Didn’t you know stones can fly?, voleva portare lo spettatore ad entrare in una sorta di spazio atemporale dove, in solitudine aveva modo di assistere ad una storia per immagini, dai contorni poco definiti, proiettate da una macchina rudimentale su due vetri smerigliarmi grazie a due lanterne magiche. Queste immagini evocative volevano raccontare le storie e le credenze del posto, prima che la memoria della valle venisse sepolta sotto i detriti delle pendici del monte Toc.
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