lunedì 20 febbraio 2017

Interview with Vittoria Gerardi


Vittoria Gerardi, classe 1996 a Venezia, è giovane fotografa italiana sperimentale. Il suo lavoro è caratterizzato da un "collage" in camera oscura dove le foto vengono sviluppate e modificate sapientemente attraverso un processo di addizione/sottrazione. Ha pubblicato Confine, il suo primo lavoro riguardo alla Death Valley in California che potete trovare qui. Di seguito l'intervista con Vittoria.

Chi è Vittoria Gerardi? qual'è il percorso che ti ha portato a diventare fotografa?
Due cose abbastanza elementari, una macchina fotografica e la voglia di scattare; scattare è sempre stato più naturale del vedere per me. Il vedere coglie troppo, troppe informazioni e angolazioni assieme, e succede che a volte non vedi. Il fotografare invece costringe a ritagliare, a distillare frammenti concentrati di realtà.
Ho iniziato a fotografare sempre più spesso, fino a trasformare quella pratica quotidiana in una necessità che sentivo di continuare a nutrire. Decisi di andare in America dopo il liceo, per approfondire quella passione in un terreno più fertile, in cui la fotografia come percorso artistico era un’esperienza possibile. E così effettivamente è stato.

I tuoi scatti sono caratterizzati da un lavoro di post-produzione in camera oscura, quasi un collage fra luce e ombre, fra i soggetti della foto e l'assenza dello spazio che crea. Come avviene questo processo? Qual’è l'esigenza, se così si può definire, che ti porta a ciò?
Ricreare un luogo fotografato come spazio d’esperienza umana, che lascia all'osservatore la possibilità di interagire e di comunicare le sue emozioni, ogni volta diverse rispetto al suo stato d’animo. È un processo che parte dalla registrazione di una realtà visiva attraverso il negativo fotografico e si sviluppa con la sua rielaborazione in camera oscura, per restituire quella realtà nella sua forma più intuitiva.
Nella serie fotografica “Confine” scattata nel deserto della Death Valley, lo scontro con una natura ostile che annulla ogni possibilità di resistenza fisica dell’individuo, diviene esperienza umana d’incontro con il limite. La forma che accoglie più intuitivamente questa percezione è quella della linea: sottile, centrale, impalpabile; massiccia, decentrata, violenta; monumentale o eterea. Ma anche quella della montagna, e altre forme elementari. È la trama del negativo che mi suggerisce se aggiungere o togliere materia, come comporla. È poi la forma a guidare il colore ed orchestrare le tonalità. Sono in sintesi, tre elementi che collaborano, la materia come spazio-presenza, la forma come intuizione della materia e il colore, come espressione della forma.

Confine è il tuo progetto relativo alla Death Valley che è diventato poi libro, mi puoi parlare di questo lavoro? come nasce e cosa caratterizza questi scatti?
Confine nasce da un viaggio in moto dalla costa Est a quella Ovest d’America; un viaggio che più di altri, forse per la vastità del territorio, si è trasformato in un attraversamento di confine fisico e psicologico. La serie fotografica si concentra sul deserto della Death Valley in California, per la sua immediatezza e vicinanza espressiva al significato del viaggio. Le estreme condizioni di luce e tempo del paesaggio, percepite come limite visivo ed impedimento fisico, vengono riprodotte combinando la manipolazione del negativo e un processo di sviluppo alternativo in camera oscura. Sono frammenti di realtà, linee di paesaggio e soprattutto composizioni d’esistenza, immersi nelle infinite sfumature del deserto. Il paesaggio della Death Valley è un ritratto esistenziale: “l’angoscia della morte e la meschinità della vita” nella poesia di Zabriskie Point.


Mi hai raccontato che hai in cantiere un progetto in cui indaghi "sul concetto di tempo e sulla sua intrinseca azione", riprendendo le tue parole, di cosa si tratta? e che tipologie di scatti troveremo?
Al momento sto lavorando a una serie scattata a Pompei, luogo in cui passato e presente si compenetrano ed emergono come realtà sospesa. Per riprodurre questa sensazione di sospensione ho utilizzato un materiale legato ai metodi di conservazione della città, servendomi della stessa tecnica e intuizione che ebbe il suo archeologo Giuseppe Fiorelli: quella di versare gesso liquido nel masso di cenere che conteneva lo scheletro della vittima al fine di ottenere un calco, congelando in qualche modo un’esistenza. Prima sviluppo la stampa fotografica in camera oscura, quando è asciutta inizio a versare una prima colata di gesso; poi, di solito in tempi diversi a distanza di ore o anche di giorni, seguono molte altre colate fino a quando la struttura del bianco si affina al soggetto della foto. L’intenzione è proprio quella di creare dei calchi fotografici della città, come bianche fragili sculture del tempo.



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