sabato 15 ottobre 2022

Interview with Alice Pedroletti

Alice Pedroletti, classe 1978, è artista visiva italiana che vive tra Milano e Berlino. La sua ricerca è focalizzata sugli archivi attraverso la documentazione fotografica, dagli oggetti all'architettura e alla geografia. Tra i suoi ultimi progetti  Architetto, I don’t draw e Go with the flow (Study on a floating island)ATRII/Berlin. The city, the island e Death of a folding boat on dry land, un libro tridimensionale che raccoglie differenti contributi e persone che hanno lavorato insieme in modo trasversale e fluido. Di seguito l'intervista con Alice. 

Chi è Alice Pedroletti e qual’è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Vengo dalle realtà [sociali] milanesi che negli anni ‘90 furono fucina di una creatività davvero libera e sperimentale da cui importanti artisti e soprattutto dj sono emersi: Claudio Sinatti fra tanti, artista pioniere del videomapping. E’ stato un periodo importante per la mia generazione, che ho riscoperto negli ultimi anni perché mi ritrovo ad applicare ciò che ho imparato all’epoca: il collettivismo, l’autogestione, l’educazione alternativa dei collettivi, l’appropriazione dello spazio pubblico. Ho iniziato a fotografare da piccola: il mio babbo mi regalò una macchinetta fotografica della Kodak che ricordo aveva dei dischetti al posto dei rullini. Ho poi iniziato a prendere in prestito la Petri di mia mamma, che ho usato fino a quando mi hanno regalato la mia prima Nikon. Mio nonno paterno era artista, un pittore attivo a Brera nel dopoguerra; l’ho conosciuto appena, ma è sempre stato una presenza importante. Disegnavo perché volevo essere anche io artista come il nonno di cui vedevo i quadri alle pareti. Invece ho studiato lingue al liceo e iniziando poi a lavorare sia come assistente fotografa che nelle produzioni di  grandi eventi musicali. Volevo imparare quello che mi interessava in modo più libero e diretto, senza costrizioni o percorsi preconfigurati.  Dopo anni di carriera come fotografa ho avuto l'esigenza di riscoprire quegli aspetti di ricerca e libertà che ogni media creativo porta con se e che nel mio caso erano schiacciati dagli aspetti commerciali del lavoro. Non avendo fatto l'Accademia è stato forse più semplice perché la curiosità che sentivo riguardava ogni disciplina in modo trasversale, ma anche complesso perché viviamo in una società che non riconosce davvero il percorso alternativo allo studio accademico e spesso la competizione è erroneamente basata su un pezzo di carta che non sempre è garanzia di talento. Non siamo medici, ma artisti e la storia dell’arte è piena di Maestri che non hanno studiato arte: Leonardo Da Vinci, Frida Kahlo, Vincent Van Gogh per dirne alcuni ‘poco noti’. Un altro grande problema con cui mi sono scontrata, e tutto italiano, è l’età anagrafica come strumento di selezione di un artista. La scelta è stata quindi semplice: parlando diverse lingue mi sono rivolta all'estero, soprattutto negli Stati Uniti, dove il mio percorso professionale e personale non era visto come un ostacolo, ma una qualità che dimostrava la mia competenza. Ho poi fatto un’esperienza in Cina e successivamente ho deciso di fare base in Europa. Adesso sono tra Berlino e Milano.

La tua ricerca è caratterizzata dall’uso dell’immagine attraverso l’utilizzo di differenti media, un assemblaggio e rielaborazione che diventa il processo attraverso il quale prende forma l’opera. Come nasce la tua ricerca e su che tematiche ti focalizzi? 
La mia ricerca è stata fortemente influenzata dalla fotografia analogica: dall’aspetto archivistico, materiale e olfattivo dell'immagine. Penso all'odore che si sprigiona da un rullino, all’aria calda di una camera oscura, alle linguette di carta amare [o al sapor di menta!!] dei rulli medio formato o ai negativi conservati come reliquie sacre. Sicuramente anche da tutti questi continui spostamenti e mutazioni che ho vissuto: una sorta di displacement perenne delle idee, una ricerca di casa o asilo in ogni luogo in cui sono stata. Oggi lavoro principalmente con architettura e geografia. Mi sono avvicinata all’archiviazione e alla scultura in modo concettuale e critico perché ho capito che erano complementari alle immagini che vedevo e creavo. Non c’è fotografa o fotografo che non abbia a che fare con il proprio archivio e con una metodologia che deve rispecchiare il proprio modo di essere e lavorare: la fisicità è parte stessa della fotografia, è solo più subdola che nella scultura perché non la si considera parte del media. Per me invece è il media: fotografia e scultura sono matrice una dell’altra, indivisibili, interscambiabili.
Alcuni dei miei primi lavori riguardano l’archiviazione degli oggetti del quotidiano che sottraggo al circuito classico di vendita, rielaborandoli con gesti scultorei o performativi, come fossero preziosi. Altri riguardano oggetti o sculture che creo io in serie, prototipi di qualcosa che spesso non esiste. Sono studi in divenire: appartengono ad una ricerca che non si conclude mai, ma che ad ogni lavoro archiviato è possibilmente conclusa. Una ricerca che parla del rapporto con il tempo e la materialità delle cose, che personalmente trovo dannosa per l'essere umano, ma della quale sono vittima io stessa. Una ricerca che apre riflessioni sull’archeologia, quella classica e quella ‘digitale’, che mette in discussione l’idea stessa di museo, di reperto e l’estetica che ancora oggi prevale. La rielaborazione di cui parli quindi in realtà riguarda tutto il mio lavoro a 360°; le relazioni visive che creo sono come rebus, appartengono ad un processo metaforico e analitico che parla del rapporto tra l’essere umano e la sua stessa esistenza, che io traduco appunto con archiviazione, fotografia e scultura. Nel tempo poi mi sono avvicinata a quegli aspetti della geografia che normalmente non vengono considerati: le emozioni e i sentimenti, la complessità dell’essere e della visione. Affronto i territori in cui lavoro come in un sogno lucido, il daydreaming inglese. Infine l'architettura, che per me è scultura. Architettura organica e Terzo Paesaggio (a quanti artisti Gilles Clement ha dato idee e voce!); Frank Lloyd Wright, Buckminster Fuller e in seguito Yona Friedman. In Germania Ernst Neufert e lo standard, la Bauhaus ovviamente; in Italia Ugo La Pietra e l’abitabilità degli spazi urbani, la sua multidisciplinarietà e l’essere antisistemico, il Gruppo A12 con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Ogni tanto penso di aver sbagliato mestiere, ma mi succede quasi con ogni professione per cui provo curiosità e interesse.

 Architetto, I don’t draw e Go with the flow (Study on a floating island) ruotano attorno a temi simili, l’isola e l’archivio/archiviazione, come hanno preso forma e cosa li caratterizza?
Architetto è la rielaborazione di un precedente lavoro fotografico che riguarda le rovine delle case nella zona del Delta del Mississippi, a cinque anni di distanza dall’uragano Katrina. Per meglio dire è la sua evoluzione tridimensionale. Parla di una casa che non esiste nel presente e che è scomparsa anche dal passato, lasciando solo alcune tracce. Un’idea di abitazione che non riesce mai a compiersi, reperti che si intersecano tra loro e con altri luoghi distanti, frammentati. L’immagine del wallpaper ricorda una maniglia di una porta o finestra: si vede del cemento sospeso nel cielo, è surreale, ambigua. Architetto è un lavoro pensato per una qualsiasi casa, oggi o nel futuro; per essere attivato dal collezionista, che può decidere se farlo vivere davvero sul muro o lasciarlo così com’è. La scultura portante è il tubolare che sorregge il rotolo, che non muta, mentre l’immagine cambia funzione a seconda della decisione che si prende: rappresenta il rapporto di responsabilità verso l’opera stessa.  Il mio archivio è stato il punto di partenza, ma la casa in cui il lavoro finirà può diventare archivio a sua volta: per questo il titolo Architetto, una parola che porta con se non solo una professione, ma anche la possibilità di un inganno o di una strategia.
I don’t draw e Go with the flow (Study on a floating island) fanno parte di una ricerca più ampia. Da dieci anni affronto il tema delle isole da un punto di vista trasversale: sociale, geografico, metaforico. Ci sono diversi filoni interni alla ricerca: le isole galleggianti, le isole urbane e naturali, gli archivi, le barche. Con Architetto ci sono in comune alcune cose: l’assenza di un definito spazio abitativo, la possibilità di inventarne uno diverso partendo dalla storia dei luoghi, la relazione tra artista, opera e pubblico, il rapporto tra scultura e fotografia. L’archiviazione nel tempo è diventata la mia pratica e metodologia e l’Archivio non è più solo lo strumento a disposizione.  I don’t draw è nato durante la residenza su Rabbit Island (Michigan, USA) dove ho usato performance, scrittura, scultura e fotografia. Le immagini sono gli appunti visivi delle azioni fatte, circa due al giorno per un mese. Mi interesso di fisica quantistica e il progetto prevedeva la misurazione del tempo nei due punti più estremi dell’isola, in alto e in basso verso il fondo del lago. Ma Rabbit Island è geologicamente in costante frattura ed estremamente piatta, mi è mancato subito l’elemento dell’altezza, mentre quello del tempo in relazione allo spazio hanno avuto un ruolo dominante. Considero le isole ‘sassi galleggianti’, volumi capaci di oscillare e muoversi in uno spazio sospeso. La superficie di RI invece era lunga e inospitale. Ho quindi deciso di misurare il mio stesso tempo nel vivere l’isola e nel muovermi avanti e indietro su di essa e le mie azioni sono diventate lo strumento per farlo. Ho creato delle tracce, alcune effimere, altre pensate per durare qualche mese, che gli artisti dopo di me hanno trovato, immaginandosi cosa avessi fatto e perché. Ho esteso il concetto di studio, archivio e corpo allo spazio circostante. Da ogni piccola esplorazione riportavo indietro una o più pietre che ho ricomposto in un puzzle, un diverso paesaggio, orizzonte, modellino. Ho anche costruito una scatola per conservarlo, che però è anche una panca su cui sedersi, uno sgabello. Ancora una volta quindi c’è l’ambiguità dell’opera, che è anche oggetto, e la relazione con lo spettatore che può decidere se aprire la scatola per provare a ricomporre il mio lavoro, probabilmente sbagliando perché non ho lasciato istruzioni in proposito. Nei lavori sulle isole creo delle metodologie di indagine specifica delle quali gli archivi sono punto di partenza e arrivo del processo creativo stesso. Per dirla più semplice: archivio tutto quello che studio, faccio e trovo, ne definisco il grado di comunicabilità con il pubblico, metto in relazione tutto il materiale e in ultimo capisco come mostrarlo fisicamente sottraendo le complessità personali e aprendo il lavoro alla collettività. Come nel caso di Go with the flow (Study on a floating island) lavoro di archiviazione che parte da un luogo specifico per parlare in senso più ampio anche di altre isole. La geografia dell’Isola Comacina diventa archivio, mappa e racconto in divenire: associazioni di immagini che ridefiniscono la cartografia dell’isola. Ad ogni nuova mostra l’archivio aumenta, si stratifica, ridisegna se stesso e lo farà fino a quando il lavoro non verrà acquistato, segnando il passaggio non solo di proprietà fisica, ma anche intellettuale dell’opera, perché dovrò interrompere la ricerca. Questo tempo indefinito, questa tensione verso l’incertezza, è per me lo spazio in cui il lavoro esiste. 

Mi parli del progetto ATRII/Berlin. The city, the island? 
ATRII/BERLIN. The city, the island è il progetto che nel 2021, grazie all’Italian Council9, ho iniziato allo ZK/U - Centro di Arte e Urbanistica di Berlino. Si divide in due parti distinte, anche se complementari: The city, the island è la mia ricerca personale sulle isole urbane e naturali, ATRII/BERLIN è quella per il Collettivo ATRII sul quartiere di Moabit, che essendo sia isola che “approdo” per gli artisti in residenza, ho considerato punto di ingresso per la città di Berlino. I nove mesi di lavoro si sono riassunti infine in una pubblicazione in edizione limitata, uno Zine Project che trae spunto da un progetto sperimentale promosso da ZK/U, chiamato self-archiving publication, e conservato all’interno della biblioteca del Centro: uno strumento che gli artisti in residenza realizzano per depositare il proprio lavoro, una traccia futura fruibile da tutti. Una piccola biblioteca che è anche archivio quindi. La tematica è ancora una volta l’isola declinata in diversi modi: isola sociale, isola urbana, isola artificiale, archivio-isola, isola-corpo, isola-barca, e come sempre isola metaforica e naturale. Ho sicuramente sviluppato il concetto stesso di isolamento: l’impatto che ha avuto sulle relazioni sociali e sulla possibilità di fruizione dell’arte da parte del pubblico, tematica fondamentale per tutte le realtà culturali che lavorano sul territorio. A Berlino ho anche vissuto una condizione immaginativa e allo stesso modo concreta e politica: diverse regole, divieti, leggi, ma anche possibilità, luoghi, riflessioni collettive. In dialogo con Alessandra Saviotti, la ricercatrice che ha collaborato al libro, ho avviato una riflessione sugli strumenti di navigazione e archiviazione rappresentati dalle barche e insieme abbiamo dato vita ad un glossario artistico, una linguaggio comune definito mentre ci scrivevamo. Un progetto nel progetto che accomuna le nostre idee, ricerche e interessi, che ridefinisce la nostra grammatica, aprendola alla fantasia [cit.], alla sensibilità personale: delle istruzioni per leggere e interpretare la ricerca, o per crearne una diversa, più personale.

Death of a folding boat on dry land sarà presentato da BRUNO a Venezia, mi parli del progetto/mostra?
Presento ‘Death of a folding boat on dry land’ che racconta la mia idea di archivi e di isola. Sono particolarmente contenta di essere a Venezia perchè è una delle città del mio arcipelago di ricerca e sono felicissima di essere da BRUNO che è un posto speciale per la città e per i libri. Il 21 ottobre inauguriamo la mostra e un intervento site specific per Studiolo, la corte interna di BRUNO, mentre il 27 ottobre ci sarà un talk di presentazione con Cristina Baldacci, professoressa associata in storia dell’arte contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che ha vissuto e lavorato a Berlino e si interessa di archiviazione come metafora e forma d’arte. Da BRUNO trovate The city, the island il mio libro-scultura: un oggetto che richiama le forme standard di The Folding Archive - l’archivio pieghevole - che ho realizzato in studio a Berlino e che Ilaria Pittassi, la graphic designer con cui ho lavorato, mi ha proposto come soluzione per raccontare questa prima parte di lavoro, caratterizzata da immagini fisiche e digitali, disegni e moltissimi testi. L’intervento esterno è l’evoluzione dell’installazione presentata a miart da Untitled Association, mio partner culturale da due anni. La storica azienda italiana Jannelli&Volpi, con cui avevo già collaborato per Architetto, ha realizzato il wallpaper il cui pattern mostra alcuni disegni realizzati in collaborazione con un’Intelligenza Artificiale (AI) che mostrano dei piani per costruire una barca pieghevole. Segni grafici che ritroviamo in ‘Her ship was so small (the Boatbuilder)’, un video in styleGAN che racconta proprio gli esercizi compiuti dall’AI nel disegnare i piani di costruzione della barca: sequenze di immagini che si mostrano in una forma quasi primitiva di segno, come geroglifici contemporanei che descrivono una barca surreale, con cui ironicamente propongo di navigare per raggiungere un’isola o la nostra idea di isola. Concludono il percorso sei fotografie della serie ‘Study for an archipelago’ più una nuova realizzata proprio a Venezia: differenti scenari in dialogo tra loro attraverso materiali, tracce e presenze umane volte a ricreare una cartografia più emotiva che reale, in cui relaziono all’isola naturale l’isola sociale tipica del contesto urbano e delle città d’acqua.

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